TRE FUMETTI DI DAVIDE LA ROSA
di Davide La Rosa (ovviamente)
SICCITA’
di Davide Bregola
Faccio una strada che costeggia il Mincio per arrivare a Po. Direzione Governolo. Sulla statale una marea di autoarticolati con la scritta “Trasporto eccezionale” , portano piloni in cemento per il nuovo ponte in costruzione da anni sul fiume, che collegherà la sponda destra e sinistra del Po. Mi fermo. Da una parte il Mincio, pieno d’acqua, e il Canal Bianco, pieno d’acqua, che arriverà a Venezia ed era stato concepito per essere un’autostrada fluviale. Passo sopra alla Modena-Brennero stracolma d’auto e di camion. Dove sta andando tutta questa gente in una normale giornata di metà settimana? Calura, canicola, sono le sette di mattina e manifesti plastificati indicano le insegne della Sagra dello struzzo dal 18 al 22 giugno, Sagra del Risotto di Villimpenta, Sagra del pesce gatto. Fino a pochi anni fa erano tutte Feste dell’Unità, ma si sa come va il vento e la storia cambia. Vento che non c’è oggi, neanche a pagarlo. M’incammino lungo l’argine e scatto foto di sabbia, acqua, pioppi neri, tigli, querce. A parte giaroni bianchi sulla banchina, ai lati del fiume, il corso principale del Po sembra ancora vigoroso. Imbocco Via Po Barna, che conduce a Correggio Micheli. Le insegne che indicano San Benedetto Po, Quistello, sono tutte scolorite, quasi illeggibili. Anche qui agriturismi e aziende agricole tra argine e golena. In lontananza vedo enormi archi arrugginiti sul modello del ponte di Calatrava e qualche operaio vestito d’arancione che sta saldando metalli. Eccolo il nuovo ponte in costruzione, che sostituirà il vecchio ponte sfondato dal peso dei mezzi che in poco più di cinquant’anni l’hanno reso inagibile. Anche qui acqua e sabbia, nulla più. Punto verso Quingentole perché voglio entrare al bar per parlare con qualcuno. A Nuvolato c’è una via chiamata Sabbioni e penso che la toponomastica non possa mentire e che la terra sabbiosa indica che il letto del fiume era più ampio, invadente, e nei secoli dei secoli lo hanno reso docile come un lupo in cattività.
A Quingentole c’è pieno di chioschi per la vendita di frutta e verdura a Km 0. Il bar edicola del paese, sotto ai portici, ha tavolini e sedie bianche in plastica. Alcune signore anziane sono lì fuori e parlano di figli e nipoti. Uno dei quotidiani della Provincia ha grandi titoli allarmistici: «Centrali, sempre peggio Sermide è ferma del tutto», «La motonave si arena a Viadana. Se non piove non si muoverà». I gestori dell’acqua invitano a ridurre i consumi. Raggiungo il Po dove c’è una piarda e una fila di motoscafi attraccati alla banchina. Lì è tutto secco. Alla mia destra una cava di sabbia chiusa da chissà quanto tempo. Vado giù, cammino sulla sabbia. C’è un signore fermo che guarda in là, sull’altra sponda in cui c’è Bagnolo San Vito. Magrissimo, con occhiali e costume blu, dice che negli ultimi quindici giorni è calato di mezzo metro. Ma è sicuro non ci sia nessuna emergenza. Ha già visto di peggio nel 2003 e nel 2006. Avanti due chilometri c’è la foce del Secchia sul lato destro del Po e la foce del Mincio a sinistra. I due affluenti si incontrano nello stesso punto e lì l’acqua sta arrivando perché due giorni fa nel modenese, tra Fiorano e Concordia, è piovuto e grandinato. «Sta arrivando giù di tutto. Fango e merda.» Ma dal Garda, tramite Mincio, arriva acqua pulita. Lì, all’incrocio tra i fiumi, si vedono tre colori diversi d’acqua. Chiedo per le centrali termoelettriche di Ostiglia e Sermide, a un tiro di schioppo, ed è tutto chiaro, cioè i conti non tornano, perché non capisce il motivo del fermo. Le pompe arrivano a pescare acqua sul fondo e così, a occhio, ci sono ancora almeno venti metri di profondità. A suo avviso, è più che sufficiente per pompare acqua di raffreddamento per le turbine. Eppure niente, chiudono impianti a gas per produrre energia elettrica. Così, tra anticicloni dai nomi esotici e perturbazioni che arriveranno dai Balcani, qui sembra tutto fermo, tranne il Po che, a parte qualche punto sabbioso, sulla linea principale corre veloce verso il Delta. E’ da questi rami secondari che stanno emergendo mezzi meccanici della Seconda Guerra Mondiale. Pochi giorni fa a Sermide è affiorato un semicingolato tedesco SD KFZ 11, un trattore di artiglieria tirato fuori dalla secca. Un ammasso di ferraglia ancora intatto che ci fa capire quanto sia labile il tempo cronologico. Da Quingentole mi sposto a Pieve di Coriano e l’argine è una vipera sottile e stretta, con il Po da una parte e le case dall’altra. Alla Canottieri “Il Cormorano” un anziano dice che suo figlio ha guardato il Meteo dallo smartphone.
Non pioverà. Qui ognuno dice la sua: per alcuni sarà una tragedia immane, per altri è solo un momento e passerà. Mi butto verso Revere e vado al Lido Po. Ho di fronte a me la centrale termoelettrica coi quattro camini puntati verso il cielo. Dalla mia parte pompe idrauliche stanno lanciando acqua sul mais, di là una cascata d’acqua scende dalla centrale e si butta nel letto del fiume. Nuvole di moscerini neri mi saltano addosso. Dicono che quando mosche e moschini iniziano a pungere, presto pioverà.
COSE CHE VOGLIONO DIRE QUALCOSA
di Jacopo Masini
Io non lo so come avviene, ma a un certo punto, guardandomi attorno, ciondolando per il mondo, o spostandomi al volante della mia Panda a metano, oppure seduto in un bar con gli amici, mi accorgo di qualcosa che ricorre come un deja vù in Matrix e mi viene da pensare che quella ricorrenza, quel fenomeno che si ripete come un inciampo, come un filo tirato nella trama della realtà, significa qualcosa. O meglio, mi viene da pensare che deve trattarsi di un fenomeno che sta lì per un motivo, magari meno stupido di quello che sembra sulle prime, anche se non sono un sociologo o un filosofo o chennesò e non pretendo certo di sapere con precisione tutti i legami e le carambole che hanno prodotto un certo movimento fino a produrre un certo esito.
Però, ecco, alcuni anni fa, un anno o due prima del 2008, cioè prima che la crisi economico-finanziaria esplodesse e fosse esplicitamente dichiarata, io mi aggiravo per le campagne dell’Emilia, o a zonzo per Torino, e mi accorgevo che le strade si rompevano sempre più spesso, si aprivano crepe come in un rotolo di pasta sfoglia secca, o come sulla crosta del pane, e poi incontravo buche e bordi ceduti di strade provinciali e mi veniva da pensare che i soldi erano finiti, se le strade erano ridotte così e nessuno le aggiustava e quando lo dicevo e ne parlavo tutti minimizzavano, dicevano ‘ma vedrai che sarà un caso, adesso le mettono a posto’, poi è arrivato il 2008 e hanno tutti smesso di minimizzare.
Una cosa simile, in fondo, ma diversa, è quel fenomeno di cui parla Gianni Celati in Mondo Nuovo, il bellissimo documentario che gli ha dedicato Davide Ferrario alcuni anni fa, che parla di lui, cioè di Celati, e di Ferrara e del Delta del Po, e delle campagne di quella terra che è la più giovane d’Italia e in cui sono fiorite fino agli anni ‘80 quelle che Celati chiamava villette geometrili una definizione che usa anche in Verso la foce, un libro che raccoglie quattro racconti di osservazione, come li ha definiti Celati. Le villette geometrili, diceva Celati, sono quelle villette a uno o due piani, tutte un po’ simili, un po’ grigie, senza un pensiero architettonico, ma appunto pensate da geometri, recintate da un cancello, con un piccolo giardino sempre tagliato di fresco, le statue dei sette nani da qualche parte, oppure la statua di un cigno, una fontanella con una ninfa di cemento, le tendine alle finestre e luci al neon che di sera, dagli interni, dai tinelli maròn - come direbbe Paolo Conte - buttano fuori un sentimento di rifugio impiegatizio e post-agricolo e quasi post-industriale. Ecco, quelle villette geometrili, diceva Celati, sono l’ultimo tentativo goffo di fare qualcosa di personale, di riconoscibile, prima che arrivasse un pensiero architettonico globale che rendesse tutti i locali uguali, le villette simili, i palazzi identici in vetro e cemento in Emilia come in Galles, in Ghana, in Perù o in Thailandia, tanto che entri in un bar di Codigoro o di Tegucigalpa e si somigliano. Le villette geometrili, o i bar tabacchi della Bassa o del di altre zone invece no.
Questo cosa vuol dire? Non lo so, ma esiste, è sotto i nostri occhi, qualcosa vorrà dire.
Così come voleva dire qualcosa che, a un certo punto Hello Kitty si è imposta nel mondo con la sua pucciosità e nessuno si è accorto, sulle prime, che era un personaggio horror senza la bocca e il fatto di non avere la bocca la rendeva impassibile, senza emozioni, quindi passibile di incarnare qualunque emozione desiderassimo e che in questo consisteva il suo diabolico successo planetario.
Quindi, tutto questo lungo preambolo per dire che adesso, quando vado in giro, c’è una cosa che a me mi sembra sempre più agghiacciante e quando ne parlo sembra che non ci facciamo caso in tanti, a parte i concessionari di auto, loro sì, ma a loro non gliene frega evidentemente niente.
Vado in giro, specialmente quando sono in auto sulla mia Panda a metano che è grigia e dopo spiego perché, mi guardo intorno e, porca puttana, il novanta per cento della macchine sono in una scala che va dal bianco al nero: bianco, grigio, nero. Cioè in una scala di colori acromatici, senza tono, non come i colori primari che sono il rosso, il verde, il giallo e il blu, con cui poi si fanno tutti gli altri colori, il bianco e il nero no. Il bianco serve a schiarire e il nero a scurire, ma la cosa ancora peggiore, che mi manda ai matti, è che dilagano le auto bianche, una roba che nel mio cervello esplode come una bomba atomica di sbigottimento, che le auto bianche somigliano a gigantesche lavatrici, a lavastoviglie con le ruote, a elettrodomestici che portano in giro gente. Ci sarà un motivo, no, se da Euronics o nelle altre grandi catene che vendono elettrodomestici, computer eccetera il reparto dedicato a lavatrici e lavastoviglie si chiama ‘reparto del bianco’? Quando ho dovuto cambiare macchina e ne ho cercata una usata non c’era verso di trovarne una colorata, solo bianche, nere o grigie e mi sono rifiutato di comprarne una bianca, che io non ci voglio andare in giro con una lavatrice con le ruote e non riesco a capacitarmi che qualcuno possa spendere quaranta, cinquanta o anche centomila euro per una macchina e alla fine la compri bianca, perché il fenomeno è talmente dilagante che si vedono ormai anche Audi, BMW e altre auto molto costose ugualmente bianche. E mi domando una serie di cose, allora. Ad esempio, non vi ricordate i delitti della Uno Bianca? Non rossa, o blu, no: bianca. Siamo forse diventati un popolo di serial killer? Moby Dick era bianca, una gigantesca balena bianca inquietante che mandava ai matti Achab e, del bianco, abbacinante tonalità che annulla i colori, parla anche Alberto Castoldi in un libro uscito anni fa che prende ad esempi proprio la balena bianca, l'albatros, il fantasma, Pulcinella, Pierrot, la pagina non scritta, la tela vergine, tutte robe che danno vertigine e inquietudine.
Mi hanno detto ‘forse costano meno’ e allora ho chiesto. No, non è vero, non costano meno. È successo anni fa che ci fossero troppe auto bianche invendute e allora i concessionari avevano fatto promozioni sulle auto bianche, ma adesso tutte le vogliono e costano anche di più, pare. Fanno schifo e la pagate anche di più! Perché!?
Perché non ci sono più auto colorate? Son così belli i colori. Auto gialle, viola, azzurre, blu, verdi, arancioni, viola, persino ciclamino o marrone. Negli anni ‘70 e ‘80 era tutta una esplosione di auto colorate, adesso solo bianche, grigie e nere.
Ecco, secondo me non possono andare bene le cose in un posto dove ci sono solo auto bianche, grigie e nere. Secondo me, non so se è vero, ma se c’è un fenomeno che ci dice che ci siamo fatti fregare l’immaginazione è quello delle auto. Bianche come delle lavatrici.
LA NOTTE DENTRO
di Elisa Baldini
Aldo Moro ha paura di lasciare il gas acceso e la notte non dorme, si lava le mani fino a finirsele e impone a tutti i membri della sua famiglia queste buone pratiche di sicurezza. Aldo Moro non dorme, e per dormire, oltre ai sonniferi, caldeggia la presenza in casa del nipotino Luca, per lui un calmante naturale, meglio della valeriana, che comunque non gli avrebbe fatto un cazzo. Moro non dorme perché c’è qualcosa che lo tormenta, e lo tormentava in tutti i film che abbiamo visto su di lui. Lo tormentava anche in quello in cui lui non era lui ma era lui, Todo modo, di Elio Petri (1976), quando Gian Maria Volonté lo imitava quasi inconsciamente e dove Petri lo fa morire ucciso da un potere ignoto, con una preveggenza inquietante che fa venire i brividi, due anni prima che lo ammazzassero davvero. Aldo Moro era tormentato anche nei panni di Roberto Herlitzka in Buongiorno, notte (2003) il film che già Marco Bellocchio aveva dedicato a questa faccenda, che in quanto un panno sporco di catena di bicicletta e quindi NON LAVABILE continua a tormentare quel pizzico di ritegno che è rimasto all’Italia tutta. A pensarci bene, non sono mai smessi di uscire film, spettacoli teatrali, libri che tentano di rileggere, interpretare, decodificare quella pagina sozza della nostra povera patria. E anche Bellocchio ci è tornato su, con questo Esterno notte, dove sviluppa il tema in forma di miniserie composta da 6 episodi, che sì, state tutti tranquilli non dovrete alzarvi da quel divano sformato dai vostri deretani appiattiti dal lockdown, in autunno vedrete sul PRIMO CANALE, sulla Rai. Non c’è bisogno di andare al cinema o fare l’abbonamento prova di Now TV. Io ci sono andata al cinema anche se fuori c’erano 45° e sono stata 6 ore e rotte diviso due con la FFP2. Ma ve lo dico con franchezza: ne è valsa la pena (ho anche scoperto che posso mangiare gli M&M’s anche con la FFP2, senza morderli subito, come piace a me, e non dò noia a nessuno. Cioè quei tre gatti che c’erano. L’ho già detto vero che al cinema non ci venite più? Ah, sì.). Le aspettative ce le avevo perché Bellocchio è esso stesso un’aspettativa: è una delle poche ancore di salvezza di quel mondo meraviglioso del cinema italiano che è stato ed incarna quello che può ancora essere. Finché c’è Bellocchio c’è speranza. Quindi io di aspettative ero bella gonfia, anche senza sentir strombazzare al capolavoro tutti quelli che hanno popolato Cannes, e, ho scoperto quest’anno tramite i social networks, hanno mangiato benissimo ad una mensa alla quale la stampa può rifocillarsi a UFO ( si sente che avrei voluto essere anche io a Cannes? Sì. Del resto c’era Cronenberg: nessuno può biasimarmi). E le mie aspettative, Bellocchio, le ha soddisfatte tutte, anzi, mi ha stupito. Di cosa parla Esterno notte? Di Moro. Di una vicenda nota, che sappiamo tutti come va a finire. Quindi non ci sono cazzi in questi casi: è il come si dice quello che si vuole dire. Le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro, e già dalla seconda puntata, quella dedicata a Francesco Cossiga (interpretato magnificamente da Fausto Russo Alesi), a parte la sua famiglia, tutti gli abitanti del Palazzo lo realizzano chiaramente, subito dopo aver appena schiamazzato un po’ con polizia, militari, raccontandosi frottole anche con i servizi segreti americani: a meno che non avvenga un miracolo, e cioè che le Brigate Rosse escano fuori a braccia alzate dicendo: “Scusate, era uno scherzo, facevamo per ruzzare” Moro da quel bugigattolo vivo non ci uscirà mai. Il perché, di preciso, non lo sanno nemmeno loro. Perché sono tutti in gabbia, ed è questo che Bellocchio ci mostra puntata dopo puntata: nonostante Papa Paolo VI/Toni Servillo si stritoli con il cilicio ogni quarto d’ora, è tutto irrimediabilmente corrotto ed asfittico, vecchio, insalubre, già morto. Il Potere per auto-riprodursi identico a se stesso, senza nessuna ombra né di sviluppo né di progresso, richiede silenzio ed immobilità. Per apparire forti bisogna avere il polso duro, non scendere a patti, non trattare. Per rimanere puliti è necessario che nessuna voce esca dalle pareti del Palazzo, anche quando esso stesso diventa, tramite una miriade di postazioni di intercettazione telefonica, la cassa di risonanza dei dubbi, delle speranze, delle manie e della solitudini di un’intero paese. La rivoluzione stessa, in cui le Brigate Rosse credevano o pensavano di credere, è anch’essa un’illusione: nella migliore delle ipotesi si milita, si uccide, ci si ribella all’ordine costituito per diventare degli eroi perdenti, come i protagonisti de Il Mucchio selvaggio.
Bellocchio decide di far star zitto Andreotti (Fabrizio Contri) e fa bene. Al massimo Andreotti bisbiglia, e parla con lo sguardo. E quello che ci trasmette è più che eloquente: che nessuno muova un dito, altrimenti tutto va a rotoli. Che tutto questo non aveva senso lo sapevate già, forza, non fate finta di niente. Qui nessuno è amico di nessuno. E qui, la vita, non si salva a nessuno. Ci si salva solo da soli. È questa la grande verità. In questo Esterno notte, a parte i brigatisti, si suppone che tutti credano in Dio: è della democrazia cristiana che stiamo parlando, suvvia! Ed è a lui, giustamente, che si affidano i compagni di partito di Moro: che faccia lui qualcosa, mentre noi misuriamo a passi larghi queste larghe stanze, mentre ci sciogliamo in pianti bambini, mentre abbracciamo rigidi come paletti la moglie, i figli, che si scansano sempre più sdegnati da questo abbraccio che di protettivo ha solo, ancora una volta, la stretta. E Moro dov’è? A sperare che tutti a casa si lavino le mani, spengano il gas, badino a Luca. Ma soprattutto a tormentarsi perché non riesce a staccarsi dalla vita come si è staccato da tutto: dall’amore, dalla pace, dalla libertà, dalla famiglia in nome di un qualcosa in cui credeva e dove si credeva, nonostante qualche scheletro nell’armadio da tenere anch’esso bello sprangato, con le mani pulite e al sicuro dalla morte per asfissia. Il Moro di Bellocchio, che Gifuni rende carnalmente vivo e morto, prima ancora di essere rapito ed ucciso, con una mimesi impressionante, si tormenta perché non si rassegna a morire, perché chiede di essere salvato. Perché forse solo in quel nascondiglio, che alla fine gli stessi brigatisti sembrano distruggere con sollievo, ha capito che ciò che aveva tenuto fuori era l’unica cosa che andava tenuta dentro: la sua stessa vita. E quello che viveva di notte, e cioè la sua famiglia, l’amore per la moglie che lo racconta come un fantasma e che si sente, di fronte a lui, un fantasma, il nipotino che osserva dormire invece di prendere lo Xanax, i figli che aspetta rientrare per assicurarsi che si lavino le mani, erano l’unica cosa da non tenere in esterno, e da non vivere solo di notte. Perché tutto il resto era solo una baracconata gigantesca, a cui aveva partecipato per un errore di concetto, per uno scarto di logica, lui, che aspettava solo di diventare presidente della Repubblica, e, finalmente, smettere di non dormire la notte.
ARRIVEDERCI
di Alessandro Schiapparelli
Detesto quelli che sanno le regole. Secondo le quali bisognerebbe vivere. Loro le rispettano. E chiedono anche a te di rispettarle. Ma, a me, non me ne frega un cazzo. Non le voglio. Faccio quello che voglio. Quando posso. Come tutti. Si lavora, si vive, si mangia e si dorme. Per il resto del tempo faccio quello che voglio. Bere e fumare. E scrivere. Punto. Non faccio altro. Qualunque incombenza mi rompe i coglioni. Bisognerebbe vivere in modo più semplice. Come una volta. Ma, una volta, si faceva fatica. Quella vera. Come i miei nonni a zappare nei campi. Noi non sappiamo neanche cosa significhi la fatica che hanno fatto loro. I miei nonni si sono sposati un sabato. A mezzogiorno. Nel pomeriggio, come viaggio di nozze, sono andati a visitare un santuario sulle montagne. Alle sei erano in stalla a dare da mangiare alle vacche. E così via. Per tutta la vita. Le bestie mangiano tutti i giorni. Inizio a scrivere di una cosa, generalmente la prima che mi viene in mente, e, poi, passo ad altro. Da piccolo, a scuola, andavo sempre fuori tema. Eh, sono fatto così. Ma, a voi, interessa che parlo di tette. Giusto? Ah,ah... Anche a me piace parlare di tette. Secondo me sono la sede dell'anima di una donna. Risiede lì. Alcune hanno un'anima veramente grande... Ah,ah... Che bella fortuna. Alcune la comprano di plastica, l'anima. E fanno cagare. Le tette, intendo. Le tette di plastica sono proprio una schifezza. Tenetevi quelle che avete, che è meglio. L'anima di un uomo, invece, è nella pancia. C'è chi ce l'ha piccola. Io ce l'ho grande. Con tutta la birra che bevo... E' per quello che ho una pancia che fa cagare. Ma non me ne frega un cazzo. Mi chiedo di cosa mi frega qualcosa veramente. Di prendere lo stipendio a inizio mese. Ecco di cosa mi frega. Per il resto sono un egoista di merda. Penso solo a me stesso. Chi non pensa prima a se stesso? Del resto, siamo la persona più importante, nella nostra vita. Non c'è nessuno più importante di noi. Per la nostra vita. Poi, viene il resto. Chi si dedica alla famiglia e ai figli. Chi, come me, non ce l'ha. E, allora, si dedica a qualcos'altro.
È normale. Mi fanno morire le fighe in carenza d' affetto, che riversano il loro amore sul cane malcapitato di turno. Sono veramente una tristezza. Mi fanno venire da piangere/ridere assieme. Un cane è un cane. E, come tale, va trattato. Mi viene in mente il pezzo che ha scritto Elisa (n.d.r. Mollette #9). Che non umanizza il cane. Già. La detesto questa cosa. L'ho sempre detestata. Umanizzi il cane e, poi, tratti le persone come cani. Fantastico. Comunque penso che questo sia il pezzo che mi è venuto peggio da quando scrivo. Se me lo volete dire la mia mail è: Schiappa71@gmail.com. Così mi faccio un'idea. Non preoccupatevi. Potete benissimo scrivere tutti gli insulti che volete. Li accetto volentieri. Io non penso molto quando scrivo. Non penso per niente. Butto giù le cose come mi vengono. Cerco di pensare il meno possibile. Faccio fluire i miei pensieri direttamente sulla tastiera. Così li vedo prima sullo schermo che nella mia mente. Quando non scrivo penso in continuazione. E non va bene. Uno si frigge il cervello. E, il mio, lo è già abbastanza. Non che abbia fatto uso di qualche droga apposta. Abuso solo di alcol. E tante sigarette. Ieri mi sono messo, a proposito, ad ascoltare Cigarettes and alcol degli Oasis. Però la canzone fa cagare. Anche se loro mi piacciono. Ecco di cosa non si parla mai su questo sito. Di musica. Io non potrei vivere senza. Ho perennemente le mie cuffie nelle orecchie. Come adesso. Con i Jesus and Mary Chain. Ecco: uno sceglie un argomento e, poi, ne parla. Io ne scelgo parecchi. O sono loro che scelgono me. Dipende dai punti di vista. Scrivi un libro ed è il libro che ha scelto te per raccontare la sua storia. Tu, scrittore, sei stato solo il mezzo. Già: forse è così. Arrivederci...
ATTENZIONE ATTENZIONE!
Davide Bregola e Jacopo Masini a “Calura” 3 luglio Casa Nuvolari Viale delle Rimembranze 1/A Mantova
CALURA
Scrittori di terra e di acqua
Una scorribanda dalle nostre parti, con scrittrici e scrittori di terra e di acque. Parleranno dei loro libri, dei loro immaginari. Lo faranno nel modo più originale possibile, con letture e suggestioni di varia natura.
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IL BURRO UNGE
di Jacopo Masini
1.
Un anno è venuta fuori la storia che quando piove ci si bagna. Allora Luigi Robuschi è andato in piazza durante un temporale, ha aperto l'ombrello e ha urlato: 'Ma non è mica vero!'.
Gli altri, sulla porta del bar l'han guardato, poi Lucio Bocchi ha detto: 'Crede proprio a tutto' e son rientrati.
2.
Le tazzine servono per il caffè o il tè. Non per la benzina, ad esempio.
3.
Il bastone prima era il ramo o il tronco di un albero. Provate a picchiare qualcuno con un albero intero, se siete capaci.
4.
Il tempo passa e non si ferma. Non è socievole.
5.
Dicono che bere durante i pasti faccia male. Mangiare durante i pasti, invece, è fondamentale.
6.
Le mele cadono dall'albero perché non possono rimanere là per sempre e a un certo punto la forza di gravità vince.
7.
Secondo Daniele Varacca, però, non c'è nessuna forza di gravità e le mele cadono solo per via dell'inerzia nello spazio tempo curvo.
8.
La teoria alternativa dice che al centro della Terra ci sono dei demoni che tirano tutti gli oggetti grazie a delle corde invisibili. Secondo alcuni bisognerebbe insegnare le varie teorie.
9.
Giacomo Panizzi, però, dice che non ha mai visto un demone tirare delle corde. Quindi la chiudiamo qui.
10.
Un anno a San Pancrazio ha fatto così buio che credevano di essere a Sant'Ilario. Ma si sbagliavano.
11.
Se lanci delle uova contro il muro, si rompono. Il muro, invece, rimane intatto e si sporca solamente.
12.
In provincia di Treviso c'è un paese che si chiama Paese. I suoi abitanti non si chiamano paesani, però.
13.
L'aria va respirata, perché masticarla è impossibile. Provate.
14.
Il mare è molto vasto e dopo pochi metri noi esseri umani non tocchiamo.
15.
Il burro unge. Anche l'olio. L'acqua no.
RADICAL-BO
di Livio Romano
Guidando verso casa mi son ricordato di una delle innumerevoli stronzate fatte in ventiquattro anni che pubblico libri. Oh, sia chiaro. Non sento di aver fatto mai stronzate per quello che ho scritto, tutt'altro! Riscriverei e pubblicherei ogni singola parola. Ma, ecco, la mia odissea nel mondo dell'editoria italiana e dei salotti e delle marchette e dei leccaculismi è, com'è noto, travagliatissima. Ingenuità, credulità, leggerezza, nessun senso pratico e diplomatico mi hanno portato nei decenni a fare errori catastrofici che, vedo, i giovanotti che hanno studiato alla Facoltà di Scrittorietà Di Successo non farebbero mai e poi mai. Fortuna che non me ne potrebbe frega' di meno, che ho ben altri scopi nella vita che avere a che fare, per dirne solo una (prima o poi racconterò queste peripezie da Paolino Paperino), con una potente agente che non solo sbaglia il romanzo da (far finta di) leggere, ma mi tiene un'ora e mezza su Skype a farmi la psicanalisi e, traslando sulla mia persona le caratteristiche del protagonista, mi dà del perdente e "oh, la gente vuole personaggi virili, che sanno come si fa, mica questi sfigati". Come che sia, non ricordo assolutamente per quale libro, l'ufficio stampa aveva contattato un ricco notabile della Bologna radical-chic, tanto sinistroso quanto carogna, il quale aveva fissato una presentazione in grande stile alla Feltrinelli sotto le Due Torri. Ma arrivava la data e al fisso di 'sto tizio rispondeva un filippino che ripeteva "Signole non c'è, signole fuori Eulopa". Il giorno dopo avevo Firenze e quello prima Padova. L'ufficio stampa ne sapeva meno di me. Mi dico ok, sarà saltato tutto, si sarà scordato. Chiamo un mio amico e mi faccio introdurre a una libreria molto carina vicino all'Accademia delle Belle Arti e colà vado a presentare incontrando un sacco di gente interessante.
Pochi minuti prima di spegnere il telefono, verso le 20, mi chiama il notabile e mi notifica che, non essendomi presentato in Feltrinelli alle 18, da quel momento in poi potevo considerare Bologna e tutta l'Emilia Romagna off limits perché lui mi avrebbe boicottato in ogni modo, e mise giù.
(In realtà, a dispetto del comunista, qualche anno dopo tornai dalla Dotta e Grassa Signora e, in una libreria in pieno centro, fui presentato da Alessandro Bergonzoni).
L’AMICA CHE TI DICE IN FACCIA QUELLO CHE PENSA
di Elisa Rovesta
“L’amica (ma potrebbe essere anche l’amico) che dice quello che pensa” ne fa pure un vanto di questa sua pluri-dichiarata-caratteristica. Inoltre, quando con orgoglio lo palesa agli interlocutori, che sono tutto fuorché assetati della sua -non richiesta- schiettezza, aggiunge anche che lo fa “perché lei è sincera”. Sottolinea per di più queste ultime parole con un sorrisino, il che non lascia mai presagire nulla di buono. Ogni volta che inizia a parlare si posiziona decisa di fronte a te, tenendo tutto il corpo rigido, i piedi li porta paralleli e incrocia le braccia come farebbe Annie Wilkis in “Misery non deve morire”. Spesso “l’amica che te lo dice in faccia” ha i capelli neri e dritti, così dritti che sembrano delle linee rette rappresentate su qualche libro di geometria. Si, la persona in questione non ha dei normali capelli, ha un blocco di linee rette a sinistra e un blocco a destra, separati da una riga in mezzo che spicca per il bianco della cute. Indossa quasi sempre una longuette nera e stretta, e una maglia attillata con il collo alto. Le sue scarpe sono nere e spesso richiamano il modello ballerine ma con un po' di tacco rotondo. “Lei è sincera” ti ripete e, anche in assenza di una tua precisa richiesta, ti dirà esattamente quello che pensa. Così, mentre i tuoi occhi non possono fare a meno di essere attratti da quella riga in mezzo bianca sulla sua testa, lei decide arbitrariamente su quali dei cazzi tuoi debba dire la sua (ma con sincerità). Questo tipo di persona puoi incontrarla in ufficio, in un locale, o dove capita. A vedere come si pone si potrebbe pensare addirittura sia un replicante come quelli di “Blade Runner” e tu, che in questo caso saresti un umano, pensi che sentire le musiche di Vangelis sarebbe l’unica cosa buona che ti potrebbe capitare. Dunque, “l’amica schietta” inizia a parlare e ha stabilito da sola che l’argomento di oggi è senza alcun dubbio la tua vita sentimentale. Lo ha stabilito sulla base di due uniche informazioni che oltretutto, le sono state riportate e che sono: sei separata e prima della separazione hai avuto un’altra storia d’amore difficile. Parte allora in quarta dicendo: “penso che tu abbia un pessimo gusto in fatto di uomini. Penso anche che tu abbia un pessimo carattere. E, perdonami ma devo proprio dirtelo, è normale che ti abbia tradita perché sei una persona molto particolare e per questo difficile da sopportare. Ti suggerisco comunque di fare una vacanza così magari torni più allegra. Sai, io dico sempre quello che penso.” Tu, che magari stai affrontando un percorso psicologico da più di dieci anni per superare il fatto di aver scoperto che tuo marito era già sposato, resti li zitta, con gli occhi lucidi e le labbra tremanti. “L’amica che ti dice sempre quello che pensa in faccia”, nonostante ti veda provata dalle sue affermazioni, non arretra di un centimetro, e come se per lei fosse una missione, continua a dirti quello che pensa perché lei è sincera. Così insiste dicendoti: “vedi come sei, ci resti subito male per niente. Come fa un uomo a stare con te. Scusami eh, ma io devo dirtelo.” Sottovoce le rispondi: “okay, ma la mia storia non la conosci. E in ogni caso, anche se dici quello che pensi, cosa ne pensi di avere anche un po' di tatto? L’amica a questo punto, ignorando l’utilità del complemento oggetto nelle frasi risponde: “no, io il tatto non lo penso, ci mancherebbe.” Così tu capisci che hai di fronte una persona che “con tutta sincerità” non conosce né te né l’analisi logica e, come se di nuovo ti muovessi sulle note delle musiche di Vangelis te ne vai portando al sicuro dai Nexus la tua storia.
(questa immagine è ironica, quindi leggetela con ironia, per favore…)
ANCORA DAVIDE LA ROSA
ROBBABUONACHECIPIACE
Cosa si può fare con un cappello?
Cartoni animati sul nuoto
Una canzone sul nevischio, che non si può prendere
L’intervista di Paolo Villaggio alla tv svizzera
Tutta la finale McEnroe - Borg di Wimbledon 1980
LA POESIA DI ZAVATTINI CON CUI CHIUDIAMO MOLLETTE TUTTE LE VOLTE PERCHÉ SÌ
DA LI ME BANDI
I par usei
la gent in bicicleta.
Apena al pé
al toca ancor la tera
a turna in ment
col ch’i evum vrü smangà.
D’cul fiur trasparent
ciamà supiòn
ag’n’é di prà.
Basta na luserta a travarsà
ch’i sa sfa.
Gh’ei sta?
Alvé la man ch’in s’ grata mai i coión.
Me am capit’ in prömavera
s’a m’inochi a vardà
li palpogni ca sbat cuntra i lampion.
I porta ancora al tabar
da li me bandi.
A ghé an vèc dal Ricovar Buris-Lodigiani
c’al sgh’invoia dentr’in fin i oc
cme s’al vrés dir
an vöi pő vedr’ansön.
Frasi ca scultava da pütlet
ié dré a sucedar propria in sla me pèl.
Mitóm: cul piop lé
al g’sarà c’ang’ sarò mia pö me.
Sl’e grand al Po.
Coi ca s’incuntra là
i sbasa sens’acorzasan la Vus,
e i arcnós,
cm’an po ad malincunia,
ca siom dabón cumpagn.
As pöl inamuraras dapartot
m’andua tsé ná dapö.
L’é mia question ad cosi ad téti no,
la dona lusaresa quand la réd,
anc da luntan,
basta parché sübét a mé l’am s’drésa
cme pr’an flaut.
*
DALLE MIE PARTI
Sembrano uccelli
la gente in bicicletta.
Appena il piede
tocca ancora la terra
torna in mente
quello che avevamo voluto scordare.
Di quel fiore trasparente
chiamato “soffione”
ce ne sono dei prati.
Basta attraversi una lucertola
e si sfanno.
Ci sono stati?
Alzi la mano chi non si gratta mai i coglioni.
A me capita in primavera
se m’ incanto a guardare
i maggiolini sbattere contro i lampioni.
Portano ancora il tabarro
dalle mie parti.
C’è un vecchio del Ricovero Buris-Lodigiani
che vi s’involta dentro fino agli occhi
come volesse dire
non voglio più vedere nessuno.
Frasi che ascoltavo da ragazzo
stanno succedendo proprio sulla mia pelle.
Mettiamo: questo pioppo
ci sarà che non ci sarò più io.
Com’ è grande il Po.
Chi s’incontra là
abbassa senza accorgersene la voce
e riconosce,
con un’ombra di malinconia,
che siamo davvero uguali.
Ci si può innamorare dappertutto
ma dove sei nato di più.
Non è questione di cosce di tette no,
la donna luzzarese quando ride,
anche da lontano,
basta perché subito a me si rizzi,
come per un flauto.
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