VARIAZIONE DI NUVOLE
di Giulio Benatti
Ci sono in giro poche copie di questo libro autoprodotto (grazie a Oligo), illustrato dall’artista Giulio Benatti. Chi fosse interessato a riceverlo gratuitamente non deve fare altro che cercarmi e passarmi un indirizzo di casa, perché lo spedisco (davidebregola@gmail.com). E’ una sorta di messaggio in bottiglia. Cinquanta copie numerate e stop. L’introduzione è qui:
“Dal più pesante al più etereo cielo. Dieci immagini dell’artista Giulio Benatti e dieci narrazioni scritte da me. Non ho voluto raccontare storie, inserire personaggi, fare resoconti con una trama. Avevo intenzione di semplificare i contenuti e provare a riportare il distillato delle mie fascinazioni. Fare decantare intuizioni, ricordi, invenzioni, immagini, incantamenti ai quali sono legato da sempre, o almeno da quando ne serbo ricordo. Ci sono le mani e c’è il respiro perché ho notato che i bimbi a un certo punto del loro sviluppo cognitivo prendono in mano un pennarello, un colore a cera, una matita, e ripercorrono sul foglio la sagoma della loro piccola mano. Il respiro, un fiato, un soffio, la ruah così importante nella Genesi biblica e di vitale importanza per tutti gli esseri viventi. Questo mi sconvolge e mi fa sperare nella vita. Ci sono i legnetti perché ancora adesso mi perdo a guardare in terra e ammirare tutte quelle forme e consistenze. Poi il cielo, che l’uomo finalmente affrancato dall’essere un quadrupede, ha potuto vedere, alzando la testa, in tutta la sua forza divina. L’ombra mi attrae perché è una parte immateriale dell’essere umano e di tutto ciò che è organico e inorganico. L’ombra è presente solo in certe condizioni. Così come mi piace vedere la forza della luce, le tane, i buchi, le impronte di uomini e animali, la ruggine (all’apparenza nemica dei metalli ma foriera di grandi metamorfosi). Tutte queste «choses» inanimate e animate creano in me una grande fascinazione e ho voluto scrivere con quell’attitudine un po’ così. Avevo in mente quei filosofi che forse hanno costruito il loro pensiero parlando di acqua, aria, caldo e freddo, umido e secco. Pensavo ai presocratici, le cui opere sono arrivate solo grazie a citazioni di altri filosofi e grazie a qualche piccolo frammento. Un pensiero riposto, quindi. Probabilmente vero, potenzialmente anche falso. Un pensiero precario, inesatto, per certi versi sfuggente. Soprattutto antico, agli albori. E io amo gli albori, quando nulla sembrava complicato ed era allo stato nascente. Mi piacerebbe. Un giorno. Ritrovare tutto questo.”
FRATELLI TOMBINI
di Jacopo Masini
Ci sarebbero così tante cose da dire, a partire da un singolo tombino, che ne scriverò solo alcune, cercando di fare meno confusione possibile. Non so se ci riuscirò, ma questo vuole essere solo uno spunto di riflessione, un sasso gettato nello stagno della nostra progressiva e inarrestabile incapacità di osservare - non dico contemplare - le cose che abbiamo sotto il naso. Letteralmente sotto il naso, in questo caso.
L'occasione me la dà 'Tombini d'Italia' di Alfonso Morone, libro destinato a diventare oggetto di culto, pubblicato a maggio 2022 da LetteraVentide Edizioni di Siracusa.
Non è un romanzo, non è la parodia di un saggio, non è un divertimento letterario. È un magnifico libro, anche dal punto di vista cartotecnico e iconografico, sui tombini. Proprio sui tombini, cioè sui coperchi di ghisa che costellano le nostre città, le nostre campagne, le vie laterali, i campi, le spiaggie, i lungomare, le baite, insomma, ogni singolo pezzo di terreno del nostro paese e, più in generale, di qualununque nazione o città o paese industrializzato del pianeta Terra.
In questo caso è un repertorio dei nostri tombini d'Italia, che sono certamente più utili e meno ottusi dei Fratelli, dal momento che sono funzionali, refrattari a inutili mutamenti o a metamorfosi estemporanee (tipo il vezzo di trasformare l'appellativo camerati in patrioti, che fa più figo) e rappresentano, come scrive Morone all'inizio, "una delle più diffuse tracce dell'impatto della tecnologia sul complesso urbano".
Sono fatti di ghisa, materiale riciclabile all'infinito come il vetro; in alcuni casi sono fermi al loro posto da duecento anni, dal momento che la loro funzione non è cambiata; meglio di qualunque altra cosa raccontano la nascita e lo sviluppo della città industriale e tecnologica, che ha iniziato a usare il sottosuolo per le reti idriche, lo stoccaggio di materiali, le reti elettriche, alle quali si accede appunto dai tombini (il Sottosopra di Stranger Things, in altre parole); stanno sotto i nostri piedi e si chiamano, a seconda delle funzioni, chiusini, caditoie, grate o botole; portano incisi il design, l'araldica o il nome di qualcuno: un Comune, un regime (quelli fasci stanno ancora lì), il nome della ditta che li produce; sono la valvola tra la pelle e la carne del mondo. E noi non ci fermiamo mai a guardarli.
È un po' la stessa cosa che accade coi soffitti. Noi occidentali euclidei viviamo dentro scatole - appartamenti, uffici, automobili, ospedali, ecc... - e abbiamo smesso per ragioni funzionali - quindi pigre - di abbellire i soffitti. Ci avete fatto caso? Una volta i soffitti erano affrescati,dovevano liberare lo sguardo, farlo evadere dalla scatola, con cieli, paesaggi, personaggi, storie. Adesso niente: solo la scatola. E noi abbiamo smesso di guardre in alto, anche il cielo quando siamo all'aperto. Ma abbiamo anche smesso di guardare in basso come i flaneur pensierosi che visitavano a zonzo lo spazio urbano. Guardiamo avanti, dritto davanati a noi, laddove immaginiamo obiettivi, dove vediamo il futuro (che secondo gli Egizi era alle nostre spalle, dal momento che non possiamo vederlo; il passato era davanti a noi, invece, visto che possiamo vederlo).
In altre parole, abbiamo smesso di contemplare i soffitti e non ci fermiamo mai a guardare i tombini. Ed è un peccato, perché i tombini raccontano un sacco di storie e questo libro, più avventuroso e interessante di quasi tutti i romanzi italiani usciti negli ultimi vent'anni, ci restituisce lo sguardo, il tempo, il fascino di una funzione immutabile e del design applicato a un oggetto calpestabile, riconsegnandoci anche la capacità di guardare. Io, ad esempio, dopo avere letto l'introduzione di Giulio Iacchetti e Matteo Ragni, che hanno vinto il Compasso d'Oro nel 2014 per aver ridisegnato i tombini dell'azienda italiana Montini, che aveva appena inventato una ghisa di nuova generazione, più leggera delle precedenti, e che voleva tombini con un nuovo design, ho cominciato a guardare i tombini in cui mi imbattevo. Iacchetti e Ragni hanno immaginato impronte di penumatici, piccole gocce di piogga e impronte di immagignifici uccellini per le aree verdi e le hanno applicate ai tombini della Montini. Ci avete mai fatto caso? Magari ne avete visti, in giro.
Io, dopo aver letto Tombini d'Italia ne ho trovato subito uno con le impronte degli uccellini dentro l'ospedale di Parma. Ho ricominciato a guardare dove cammino. Ora mi toccherà affrescare il soffitto.
(pezzo già pubblicato su Bengala di Ray Banhoff)
LA PASSEGGIATA
di Davide Bregola
Uno
C’è questa foto fatta a Robert Walser in cui guarda in camera e ha un ombrello appoggiato al braccio sinistro. E’ elegantissimo, con un completo di fustagno, panciotto e cravatta. Nell’altra mano sembra avere un berretto, ma non capisco bene se è così; la foto è tagliata e mi impedisce di capire. E’ chiaro che si trova su una strada in terra battuta. Attorno a lui ci sono rovi secchi e sparuti alberi. A occhio alle sue spalle c’è qualche poderoso pino e steli affusolati di betulla. Con il gesto delle dita ingrandisco l’immagine per vedere i suoi occhi. Le pupille sono rivolte a sinistra, per fissare l’obiettivo. Il taglio dei suoi occhi punta verso il basso. La foto è in bianco e nero, ma così a intuito sembrano occhi molto chiari, azzurri o grigi. Cerco sempre gli occhi delle persone. Anche quando cammino sul marciapiede. Alla luce del giorno gli occhi sono di una bellezza incontenibile. Occhi arrossati, occhi nitidi, occhi con venuzze, occhi trasparenti. Mi è accaduto diverse volte di guardare gli occhi di persone e vederci dentro sofferenze atroci o gioie febbrili. In entrambi i casi sento come una grande emozione e sono obbligato a staccare lo sguardo perché mi viene come una specie di magone e non so il perché. Anzi, lo so il perché: è una specie di timore. Già, gli occhi: l’altra sera guidavo al buio e improvvisamente è balzato da un fossato un animale. Ero ancora lontano, ma sembrava una volpe guizzata da una parte all’altra della strada. Per un momento quasi impercettibile i suoi occhi si sono specchiati con la luce dei miei fari e ho visto la bragia. Occhi di bragia, li chiama Dante, riferendosi a Caronte. Quegli occhi li ho visti in una fotografia scattata a Kafka da un anonimo. Nel libro “Il versante animale” del filosofo Jean-Christophe Bailly, un libro in cui racconta il rapporto tra uomini e animali, natura, mondo, c’è questa foto famosissima di Kafka studente, seduto in poltrona. È la foto di Kafka in bombetta che hanno visto tutti. Prima d’ora non avevo mai notato che al suo fianco ci fosse un pastore tedesco con gli occhi bianchi illuminati da una luce. Forse è la luce che entra da una finestra di fronte, forse la luce del magnesio di un lampeggiatore fotografico. Mai accorto di quel cane, dei suoi occhi. Oggi lo guardo, li confronto con gli occhi bonari di Kafka e non vedo altro che i loro occhi. In diversi racconti Kafka si chiede dettagliatamente come possa essere, sul serio, quando si è un animale. Lo scrive nel suo testo più famoso dello scarafaggio, ma fa la stessa cosa nel meraviglioso racconto La tana. C’è sempre un’inquietudine che condivide con l’animale, anche con un piccolo animale, ma c’è anche la sua posizione di essere umano che osserva l’animale e contemporaneamente vede il cursore delle sue emozioni spostarsi in regioni paniche. Io invece guardo gli occhi e, anche se sono vivaci, ci vedo la fine di tutti. Allora stacco.
Due
Martedi scorso mi sono incontrato a San Benedetto Po con la fotografa Marzia Lodi. Era impellente il desiderio di parlare con lei di sguardo, parlare di guardare perché il suo libro intitolato “Atlantide” ripercorre le atmosfere di un piccolo paese attraverso ritratti di abitanti, luoghi, oggetti. Per ogni scatto c’è la trascrizione di quel che ha ascoltato ed è scaturito un breve testo da ogni situazione immortalata. Ci sono foto “sbagliate”, nel senso di “foto fuori dalle regole manualistiche”. Eppure sono foto evocative, con una loro forza, un loro linguaggio. C’è uno sguardo che mi interessa, come in questa:
Io vorrei scrivere come in questa foto. Ero d’accordo con Marzia quando diceva, lì nella piazza di San Benedetto, dove c’è la tomba di Matilde di Canossa e dove ha vissuto Martin Lutero, che ad accostare lo sguardo si sentono le epoche e le presenze passate e future. E’ così, il tempo cronologico è uno dei tempi possibili, e se lei a Bologna, in Piazza Grande, non riesce a stare perché sente le sofferenze degli uomini e delle donne del passato, io sento tutta la rabbia di Antonio Delfini leggendo “Il ricordo della basca” e in particolare rileggendo la bella introduzione che scrive per la ripubblicazione del libro che vincerà nel 1963 il Premio Viareggio. Ma lui era già morto pochi mesi prima. Allora, parlando di Delfini, ci siamo fermati a guardare i suoi occhi, in particolare gli occhi di questa foto:
Lo sguardo di Antonio, quello con la camicia bianchissima e le braccia incrociate, buca la dimensione del tempo. Ecco, certi sguardi mi commuovono perché ci sento dentro tutto il possibile. Tutte le emozioni. Tutta la morte. E. Io. Non so. Non so se riesco. A fare. Altro.
Tre
In questi ultimi tre mesi sto leggendo solo poesia. Leggo e rileggo Alfonso Gatto, nell’edizione Jaca Book curata da Francesco Napoli. Sto leggendo L’Ecclesiaste nella versione Einaudi di Guido Ceronetti, sto rileggendo Trakl e Mario De Sa Carneiro, Juan De La Cruz, le poesie di Breton e Rene Char tradotto da Vittorio Sereni. Ho bisogno di avere paura per il tramite dell’esattezza di sguardo e solo la poesia, in questi mesi, mi fa paura in tal senso, ossia nel senso salvifico del termine “paura”. Leggere la disperazione di Nina Cassian in C’è modo e modo di sparire mi fa paura. Leggere le poesie di Brodskij mi fa paura. Anche una sola parola può farmi tremare il labbro, o il dentro di me, per un istante: “Io scrivo da un Impero che distende/tutti i confini fino all’acqua./Sulla pelle ho sperimentato due oceani e due continenti,/mi sento quasi come il globo: non/c’è più un posto dove andare. Solo stelle/più in là. E brillano.” A me questi versi fanno paura perché sembra anche a me di non avere più posti dove andare. Solo stelle più in là. E brillano. Ho bisogno di parole poetiche paurose. Sguardi oceanici, sensazioni oceaniche. Enormi parole potenti messe assieme in un’alchimia imprevedibile e nuova. E poi in questi ultimi tre mesi ho bisogno di fotografia. Immagini pulite, lontane dalle fotografie del cazzo che circolano sui social o sui Media. Immagini senza uno sguardo. Questa fotografia del 1839 di Robert Cornelius è un autoritratto. Tempo di esposizione quattordici minuti:
Guardo centinaia di volte le fotografie scelte da Benjamin per il suo saggio “Piccola storia della fotografia” dove c’è già tutto per capire l’essenza delle immagini: corpi, animali, oggetti, piante, sguardi, particolari, scene teatrali, cavalli sfiancati dalla fatica. Immagini che emergono dall’oscurità dei tempi paralleli al nostro. Luce accumulata e fermata su lastre fotografiche. La bellezza delle facce antiche fotografate nel XIX° Secolo, la magnificenza dei tetti francesi sfocati, gli occhi della Ninfa della montagna documentati da Julia Margaret Cameron…la sfocatura. Io ripartirei dalla poesia e dalla fotografia. A mio avviso la poesia e la fotografia possono rappresentare da oggi, e nei prossimi anni, quello che la graphic novel sta rappresentando da una ventina d’anni a questa parte. Un nuovo e antichissimo linguaggio. Se fossi un editore farei solo due collane: una di poesia, altissima poesia, e una di fotografia. Altissima fotografia. Stop.
Quattro
Mi accorgo solo ora che quando vado a scuola fischietto. So che entrerò in classe e vedrò bimbi che hanno sguardi forieri dell’adulto che diventeranno. Hanno prodromi di quel che saranno, e quando li guardo penso che è già tutto lì, è già tutto lì l’uomo o la donna che diventeranno. Può accadere di tutto nella loro vita, ma quel che vedo è la loro essenza. Li guardo ora e vedo già il futuro. Intanto io fischietto mentre cammino con la mia borsona piena di poesie e filastrocche: Toti Scialoja, conte e ninnenanne. Farò leggere questi versi misteriosi, allegri o inquietanti, racchiusi in una musicalità scanzonata. Intanto io fischietto e mi accorgo solo ora di fischiettare sempre le stesse melodie. Fischietto Philipp Glass e Arvo Part. Anche quando passo innanzi alle persone fischietto perché mi viene così bene e, adesso che ci penso, è veramente punk fischiettare mentre tutti sono al telefono e si lamentano per i soldi e per la sanità e per le cose più assurde. Le persone litigano furiosamente al telefono, e mai una volta che abbia sentito parole di passione o di amore per qualcuno. Mai. Sempre e solo malattie e incazzature. Tanti anni fa sentivo la gente fischiettare. Uomini e donne fischiettavano l’ultima canzone di successo o melodie tutte loro. C’era persino un detto che diceva: “Dona ca sifula pes che na uipera”, che significa questo: la donna che fischia è peggio di una vipera. La diceva sempre una signora anziana vicina di casa. Ma al di là del proverbio, sentivo gli imbianchini fischiettare, i ragazzi in bici. Certi tipi facevano dei fischi clamorosi, lunghissimi e particolari. Io stesso ho imparato a fischiare fortissimo imitando gli storni. Adesso che ci penso mi sembra che al mondo siano felici solo gli extracomunitari. In loro vedo i sorrisi che altri hanno chiuso a chiave in qualche antro buio. Da giorni mi va di vestirmi sempre allo stesso modo con anfibi militari, bragone verdi coi tasconi laterali e una pidocchiera blu, in lana, alla maniera dei marinai. Vado fiero del mio abbigliamento strano, ma oggi mentre ero alla lavagna e stavo disegnando una lepre, un bimbo di seconda elementare, in prima fila mi ha detto:
“Maestro devi andare nell’orto?”
“Perché?” Faccio io.
“Sei vestito da giardiniere…”
Gli ho risposto che in effetti mi piace andare nell’orto, ma non ero propriamente vestito da ortolano e anche se la cosa mi faceva ridere ho dovuto rimanere serio. Ho solo detto che a me, da piccolo, sarebbe piaciuto fare il falegname. Una bimba ha alzato la mano e, felice, ha detto che il suo papà in effetti costruisce porte e finestre in legno. Sembrava molto fiera nel dirmi che le finestre della scuola le aveva montate lui. Per farla breve ho tirato fuori un libro e ho letto la “conta” che fa: “Sotto la cappa del camino/c’era un vecchio contadino/che suonava la chitarra/Bim Bum sbarra”. Molti bimbi non sapevano cos’è un camino e così ho dovuto fare vedere dal tablet un camino a legna e ho spiegato loro cos’è la cappa del camino. La maggior parte di loro non aveva mai visto un camino. Solo il figlio di una cameriera di pizzeria era riuscito a intuire che il forno a legna della pizzeria ha una cappa simile a quella di cui parlava la conta della tradizione. Ho estratto dal borsone un’ocarina di terracotta, una armonica a bocca e un kazoo di metallo. Mentre i bimbi leggevano ad alta voce in coro io tenevo il ritmo con gli strumenti a fiato. Sono uscito da scuola fischiettando questa canzone di Zbegniew Preisner tratta da un film di Kieślowski:
E per tutto il giorno ho suonato nella testa questa musica meravigliosa di Preisner e ho pensato a me che sembro un ortolano o un giardiniere. E io. Tutto questo. Vorrei. Provarlo. Ancora. E ancora. Ancora. Fischiettando.
INTRODUZIONE ALLO PSEUDO-BASHO
di Jacopo Masini
Qualche giorno fa Igor Ebuli Poletti mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere una piccola introduzione a un suo libricino che ho amato molto, in cui, secondo me, esplora con gusto i confini dello sterminato mondo dell’ovvio. Un mondo tanto vasto che, come gli abissi dell’Oceano, non è ancora stato esplorato a dovere.
E mi sono venute in mente delle cose, a partire da una notte di un po’ di anni fa.
Una volta, verso le cinque del mattino, dopo aver consumato due toast e un cappuccino ed essermi alzato dal tavolino del bar Nadia di Bordighera col mio amico Emiliano - eravamo appena usciti da una discoteca e facevamo colazione, come si usava e si usa ancora, adesso non state qui a giudicare sempre tutto che non sta bene e mette di cattivo umore -, una volta, dicevo, ci siamo alzati dal tavolino e, passando accanto a un altro tavolino occupato da due o tre che come noi stavano facendo colazione, ho intercettato questa frase: "Quando un TIR deve partire e non ce la fa, non ce la fa".
Ho detto al mio amico Emiliano "Hai sentito?" e in effetti aveva sentito. A partire da quel momento, quella frase è diventata un nostro mantra, cioè una specie di roba che uno si ripete per chissà quale ragione, o meglio nella speranza che quella frase produca un effetto benefico sulla persona, cioè su sé stessi, o che scombini per sempre le sinapsi, o molto semplicemente perché sì.
Il nostro motivo era perché sì, cioè perché nella sua lapalissiana grandezza quella frase spiegava tutto: una cosa deve accadere e non accade? Semplicemente non deve accadere. Vuoi alzarti ma non lo fai? Non devi alzarti. Un TIR deve partire ma non ce la fa? Non ce la fa.
C'è qualcosa da capire? No. E appunto per questo, nel corso degli anni, ogni volta che ho ripetuto a estranei che non fossero il mio amico Emiliano quella frase, la reazione era di stupore, disorientamento, mandaacagarismo (una corrente di pensiero molto in voga tra coloro che reagiscono allo stupore o al disorientamento con scetticismo e/o disappunto). Perché? Perché a noi l'ovvio ci fa schifo.
Anzi, l'ovvio ci spaventa al punto tale da ignorarlo. Non è l'ignoto a spaventarci, quello ci affascina. No no, è l'ovvio, che è sempre sotto i nostri occhi, ci passa accanto, abita il nostro cervello, ma noi siamo così abituati a non considerarlo più che quando ci guarda negli occhi siamo senza parole. Altro che abisso che se lo guardi guarda in te. La verità è che se guardi l'ovvio esso ti guarda e ti sputazza.
L’ovvio ha le sembianze di una partita a briscola al bar, di un tombino calpestato ogni giorno eppure sconosciuto, di una maniglia che tutti i giorni è lì ad attenderci, ma se qualcuno ci chiede di descriverla non sappiamo com’è fatta. L’ovvio risponde a quello straripante e inquietante (nel senso della hauntologia, in un certo senso) aspetto della realtà per cui i dettagli sono spaventosamente numerosi, ma non fanno niente per venirci incontro, tanto che, secondo qualcuno, la letteratura, il cinema, ma tutta l’arte in generale non sono altro che il tentativo di farci notare i dettagli (pensate a una mano dipinta, una bocca descritta, un occhio fotografato, una porta aperta sul nulla inquadrata in un film).
L’ovvio è lo spazio in cui sguazziamo, e come la luce è presente ovunque, in tutto l’Universo. Non è ovvio che la Terra ruoti attorno al Sole? D’accordo, non lo è stato sempre, Galielo ne sa qualcosa, ma una volta che ce ne siamo accorti e lo abbiamo accettato, ecco che è diventato ovvio. L’ovvio ci aspetta in agguato, attende che ci accorgiamo di lui, come un TIR che deve partire e non ce la fa.
Perciò, l’opera finalmente giunta a noi dello Pseudo-Basho ci libera dalle catene e ci consegna fra le braccia dell'ovvio mostrandocene la plastica grandezza, i confini sterminati, la comicità piena di tragedia, le rane che scompaiono, la vita che accade e spesso non ce la fa. Perché? Perché non ce la fa.
Lo so, è dura da accettare.
COSÌ COME EGIDIO ROBUSCHI
di Jacopo Masini
Andando un giorno per i campi col fucile a tracolla alla ricerca di fagiani, che in quella stagione si acquattavano nell’erba alta per poi saltare fuori all’improvviso dando un colpo d’ali accompagnato da uno strido improvviso, Egidio Robuschi vide in mezzo alla terra arata, a un centinaio di metri da lui, una figura femminile immobile, con le mani lungo i fianchi e una strana luce attorno al profilo.
Era all’incirca il tramonto e quella donna, stampata contro il cielo appoggiato sul filo dell’orizzonte della pianura sterminata, sembrava stesse guardando proprio lui, Egidio Robuschi, che ebbe l’istinto di prendere il fucile, imbracciarlo e puntarlo contro la donna, perché era una delle poche cose che sapeva fare, coi fagiani, coi caprioli, coi cinghiali e con le persone che si avvicinavano al suo podere senza chiedere il permesso, così gli venne d’istinto di fare la stessa cosa, ma appena posata una mano sulla canna del fucile, a contatto col metallo, gli passò la fantasia.
Gli sembrò a quel punto che la donna sollevasse un braccio nella sua direzione, col palmo all’insù e gli facesse richiesta di avvicinarsi con un gesto ed Egidio Robuschi ebbe l’impressione che una voce femminile nella sua testa dicesse ‘Egidio, vieni, seguimi’, ma Egidio non era certo tipo da credere a cose del genere, specie se a dirle era una donna ferma in mezzo a un campo e con la luce del tramonto alle spalle che non permetteva neanche di vederne distintamente i lineamenti.
‘Ma io no che non vengo’, disse e al rumore delle sue parole un un fagiano si alzò in volo, Egidio imbracciò il fucile e sparò senza pensare, in direzione del fagiano, che era sulla stessa traiettoria della donna in mezzo al campo ed Egidio
Robuschi si rese immediatamente conto di quel che aveva fatto.
‘Orco boia, ho mazzato anche la donna’, pensò, mentre il fagiano spegneva la sua traiettoria in riva a un fosso. Ma la donna non c’era più.
Un attimo prima era lì e dopo lo sparo era svanita.
Egidio Robuschi raccontò negli anni a seguire diverse volte questa storia e le cronache riportano il fatto come uno dei rari casi in cui a qualcuno appare probabilmente la Madonna, concedendogli magari la possibilità di redimersi e passare alla storia come santo o beato, e lui invece le spara.
Passando alla storia così, come Egidio Robuschi.
(da Santi Numi, Exòrma)
GLI ACQUERELLI DI GALILEO
Nel Sidereus Nuncius si trovano gli acquerelli di Galileo Galilei.
Il primo uomo nella storia, usando il telescopio, inquadra la Luna e la immortala.
ROBBABUONACHECIPIACE
Yourcenar
Raimond Queneau
Dalla mostra su Luigi Ghirri
1975, Lou Reed esce dal buio del video come un fantasma.
Questa razza che sono gli scrittori
LA POESIA DI ZAVATTINI CON CUI CHIUDIAMO MOLLETTE TUTTE LE VOLTE PERCHÉ SÌ
SOT’AL PORTAG
Sot’al portag, long
men d’cent metar,
a fag a temp
pröma d’rivarg ‘in fond
a pansà:
1) chi mantés sira e matina
al s’cata na volta in dla vrità
cme n’arloi ferum
2) al me trop preocüparam
dla gent
(che muviment, che cambiament d’cravati)
3) o masà cm’al panser,
pantì avrés esar lincià
da coi pès ad mé
4) quanti robi ca so
chiatar no
quanti chiatar i patès
me no
5) ringrasià la sort
che Mafalda la canta
quand la lava
i pagn dal padron,
l’è vec, l’argata,
peró in dal coro
a morte a morte c’al vé da la cantina
am par d’arcnosar la sö vus
6) in sustansa al me paés
l’e dés paroli:
arzan piarda la cuperativa
paièr ca brüsa, lingöria,
la man survulanta tra li braghi
d’na dona anca sopa
in dla cuntrura,
al Po al vé föra
sansali vén cot
al lös in sl’a tor
c’al s’lamenta
vers Milan o Türén
second al vent
7) scapà in campagna, a par
d’esar gnü al mond a godar
dl’asensa dl’om,
specie s’at camini
an dua ghé arà
8) parlà cun Diu?
am sum sgarapa: na volta al scultava in devusion
sensa saver
ch’i era paroli c’ag miteva in boca me!
A resta ancor di arcadi,
gn’avres da cuntarav e mia a cardresu,
cost l’è al mé dulur,
dal paiàs am daresu.
*
SOTTO IL PORTICO
Sotto il portico,
lungo meno di cento passi,
si fa in tempo
prima di arrivarci in fondo
a pensare:
1) chi mente sera e mattino
si trova una volta nella verità
come un orologio fermo
2) il mio eccessivo preoccuparmi
del giudizio degli altri,
(che tramestio, che cambio di cravatte)
3) riconoscere che ho ucciso col pensiero,
pentito vorrei esser linciato
da chi è peggio di me
4) quante cose che io so
e gli altri no
quante gli altri patiscono
io no
5) ringraziare la sorte
che Mafalda canta
quando lava
i panni del padrone,
è vecchio, talvolta dà di vomito,
però nel coro
a morte a morte proveniente dagli scantinati
riconosco la sua voce
6) in fondo il mio paese
è una decina di parole:
argine piarda la coperativa
pagliaio che brucia, la cocomera,
la mano sorvolante tra le brache
d’una donna anche zoppa
nella controra,
il Po straripa
zanzare vino cotto
il luccio sulla torre
che si lamenta
verso Milano o Torino
a seconda del vento
7) scappare in campagna, sembra
di essere venuto al mondo per godere
dell’assenza dell’uomo,
specie se cammini
sulla terra arata
8) parlare con Dio?
mi sono scantato: una volta lo ascoltavo in devozione
e non sapevo
che quelle parole gliele mettevo in bocca io!
Ci sono ancora metà arcate,
un sacco di roba da raccontarvi e non ci credereste,
questo è il mio dolore,
del pagliaccio mi dareste.
LEGGETE BENGALA!
ISCRIVETEVI A BENGALA!
Ray Banhoff scrive cose che erete solo da lui, nella sua esplosiva newsletter che fa luce nella notte dei giorni tutti uguali. Editoriali umorali, libri, fotografie, scazzi, slanci, musica: tutta roba buona.
Abbiamo deciso che Mollette e Bengala sono cugine, per affinità, per simpatia, perché sì.
Quindi noi, cioè Davide e Jacopo, vi invitiamo a cliccare QUI e a seguire le scintille di Bengala.