WALK LIKE AN EGYPTIAN
di Marco Galli
ISIDE E OSIRIDE
di Davide Bregola
Ma perché gli egizi? Prima di tutto perché negli ultimi anni sono totalmente fuori moda. Fino a qualche decennio fa se ne parlava molto. Programmi televisivi come Quark, o altri programmi sui misteri, ne parlavano a ogni piè sospinto. Christian Jacq coi suoi romanzi dalle copertine fluo che riportavano faraoni, regine, piramidi, Ramses e cleopatre, regnavano nelle librerie di lettori più o meno compulsivi. Oggi sembra di no. Oggi sono fuori moda gli egizi. Per cui sembra un buon motivo provare a occuparsene. Con gli Egizi devo per forza partire da lontano, perché bene o male mi hanno sempre accompagnato durante tutta l’esistenza. Prima di tutto un incubo: il film La mummia, quello originale in bianco e nero del 1932, con Boris Karloff, aveva riempito le mie notti e i miei bui di bimbo che un’estate degli anni ‘70 lo vide in televisione e ne fu terrorizzato per anni. Quelle bende a forma di uomo che camminavano con le braccia protese verso persone urlanti avevano agito in me smuovendo ataviche e ancestrali paure.
Poi un libro di mio padre sugli egizi che capeggiava nella libreria di casa e che ha fatto tutti i traslochi che abbiamo fatto noi dagli anni ‘80 agli anni Zero. È un libro che ora è nella libreria della casa adibita a biblioteca e che contiene tutti i libri che non uso ma dai quali attingo sovente per ricerche o semplici consultazioni. La curiosità per i vari simboli dei geroglifici. So che per i papi, almeno fino a Giovanni XXIII, era riservata un’ imbalsamazione molto simile a quella dei faraoni. Se ci penso, poi, i drappi sontuosi di certi sacerdoti possono ricordare le vesti degli antichi egizi. Mitra compresa con annesso bastone pastorale.
C’è un centro commerciale enorme, a Vicenza, che si chiama Le Piramidi. All’esterno, sul tetto, ci sono enormi tetraedri in vetro che dovrebbero ricordare strutture monumentali simili a quelle che si trovano nei deserti egiziani. Ci andavo, alle Piramidi di Vicenza, perché lì vicino c’è un negozio che vende oggetti da saltimbanco, giocolerie, torce e birilli per artisti di strada, mangiafuoco, e io passavo per acquistare oggetti per il teatro di figura e per l’intrattenimento. Una volta sono stato in Egitto con l’Istituto Italiano di cultura al Cairo. Ho parlato all’università assieme a Enrico Palandri, Edoardo Albinati, il critico letterario Roberto Carnero, e dopo i nostri incontri istituzionali andavamo a zonzo per l’immensa città. Abbiamo fatto un lungo giro nel museo egizio e ricordo che dopo mezz’ora i sarcofaghi, le mummie, i calzari, i pezzi di roccia, mi sembravano tutti uguali. Erano enormi reperti che nella mia mente si confondevano con quelli visti al museo egizio di Torino, o confusi tra le immagini dei libri di storia sfogliati. Un giorno abbiamo preso in affitto un’auto e siamo andati nel deserto a vedere le piramidi. Gruppi di uomini con gli asini attaccati a corde di iuta ci correvano incontro per farci da guida e caricarci sui quadrupedi. Ho l’immagine di Palandri appeso a un ronzino marrone e un tipo di sotto, col vestaglione color canapa, lo trainava in giro sulla sabbia. Io ero in groppa a un asino e attorno a noi c’erano altissimi cammelli che ruminavano soavi nel nulla. C’erano queste enormi piramidi. Dalla groppa dell’asino sembravano vicine, ma poi girando sulla sabbia sembrava non arrivassimo mai. Le nostre guide improvvisate non parlavano inglese. Facevano gesti e noi annuivamo. Palandri sembrava trasognante. Guardava tutto col sorriso. Io cercavo di capire. Ma non c’era nulla da capire, perché i tizi avevano visto questi quattro occidentali, li avevano accalappiati, e volevano trarne qualche vantaggio. Avevamo sborsato qualche sterlina egiziana. Per noi erano pochi euro. Che ne so, dieci euro a testa. Per loro era un’enormità. Poi ci portarono a vedere una moschea antica. Ci fecero togliere le scarpe e così camminavamo con le calze tra vecchi tappeti, forse antichi. Lo sguardo di Albinati era quello di chi ne aveva viste tante. Sempre un po’ disilluso, un po’ indifferente. La sera prima si era incazzato con la direttrice dell’istituto italiano perché, a parer suo, ci tenevano troppo controllati. E invece noi volevamo andare in giro dove vivevano le genti del Cairo. I mercati, le vie meno trafficate. Secondo lei era pericoloso e allora Albinati aveva detto che una “semplice preside” non doveva decidere per noi. Secondo lui dovevamo fare come ci pareva. Trovavo geniale e dissacrante riportare i ruoli per quello che erano. In effetti un direttore di un istituto, seppur all’estero, gira e rigira è comunque un preside. Io non ci avevo mai pensato e dentro di me mi accusavo di essere un provincialotto ingenuo. “Vedi a essere nato a Roma…” pensavo. Quando uscimmo dalla moschea un gruppo di uomini non ci voleva riconsegnare le scarpe. Girare scalzi non era cosa. Per cui a un certo punto abbiamo capito che per ridarcele avremmo dovuto sborsare qualche sterlina egiziana. Così ci riconsegnarono le scarpe e via andare. Dormivo vicino al Nilo, in un hotel che si chiamava Om Kalthom come la famosa cantante egiziana. Dalla mia stanza vedevo il flusso continuo e insopportabile delle auto che 24 ore al giorno suonavano il clacson e mi rendevano nervoso. Un inferno. Però dalla finestra vedevo il Nilo. È un fiume immenso, smisurato, e da una sponda all’altra quasi non si vede la fine. Guardavo la sponda più vicina del Nilo e mi venivano in mente Iside e Osiride. Dal culto di Iside proviene il nome di una delle feste più attese: il carnevale. Il “carrus navalis” era il carro della dea portato in processione su un battello a ruote. Era la patrona dei navigatori e tra canti e danze e nelle città marittime e fluviali del mondo antico, dopo l’inverno, veniva trasportato sul fiume o in mare per inaugurare la nuova stagione di pesca e navigazione. Ecco perché ancora oggi i più importanti carnevali del mondo sono nelle città di mare: Rio de Janeiro, Viareggio, Venezia, o su grandi fiumi. Nell’antica Roma la festa in onore della dea Iside prese la forma di una festa mascherata. Un corteo trasportava un’immagine di Iside su un’imbarcazione di legno, ornata di fiori, e rievocavano la vicenda della dea che aveva ritrovato in mare le parti smembrate del suo fratello-sposo Osiride. Dalla loro successiva unione nacque Horus, ma vabbé, questo per dire che in tutto l’impero romano Iside era conosciuta e venerata e man mano passavano i secoli le sue qualità e virtù passarono, e successivamente vennero attribuite, alla Madonna cristiana. Non è un caso se il termine stella maris, stella del mare, è un epiteto attribuito alla Madonna e deriva, senza dubbio, al ruolo di protettrice dei navigatori che aveva prima di lei Iside. In certi luoghi d’Europa e dell’Italia del Sud, Maria, come Iside, viene accompagnata su un carro verso il porto, caricata su un’imbarcazione, e portata in processione per mare. Lo stesso accade per le “madonne nere” diffuse nelle Americhe, in Turchia, Messico, Costa Rica, nelle Filippine. Anche le madonne nere derivano dal colore scuro della pelle di Iside nelle sue raffigurazioni egizie.
Così, quando scendevo nella hall dell’ Om Kalthom, c’era perennemente la voce della cantante che usciva dalle casse messe agli angoli della grande sala. Era tutto così esotico, eppure pensando alla relatività con cui ragionava Edoardo Albinati, un po’ ridevo dentro di me, e immaginavo di essere sul set di Totò e Cleopatra, dove il triumviro Marco Antonio, baciando la mano della regina dice: “Mmmm che profumo di baccanale…Baccanale all’egiziana. Mai una volta che mi danno un pezzetto di baccanale alla vicentina!” poi entra in scena Carlo delle Piane, figlio di Cesare, che lancia cartucce appuntite con la cerbottana e centra le terga di Totò. Senza contare poi che su Facebook c’è un gruppo chiamato “Gli antichi egizi erano in realtà degli alieni” e conta tra le fila ben 3 membri. Alla fine il giornale della mia città fece un articolo sulle mie settimane nel paese africano e l’intitolarono “BREGOLA D’EGITTO”. L’articolo era accompagnato dall’immagine di una specie di esploratore con sahariana in groppa a un cammello. Una bella presa per il culo, Ça va sans dire. Quando sull’Egitto è buio fitto fitto brilla un disco rosso in ciel…beccatevi Teocoli che canta “Laggiù sul Nilo blu”.
GLI EGIZI A POMPONESCO
di Jacopo Masini
A dicembre io e Davide Bregola siamo andati a Pomponesco. Ci siamo trovati là per alcuni motivi.
Perché avevamo deciso di vederci per parlare di Mollette e di altre faccende, perché ci piace Pomponesco, perché amiamo molto la Bassa e i paesi addossati all'argine e perché a Pomponesco, in centro paese, che è piccolissimo e non c'è in giro nessuno a dicembre, ma forse neanche nel resto dell'anno, ci sono due ristoranti.
Uno molto prestigioso e uno più tradizionale e molto amato, che si chiama Cavalier Saltini e avevamo deciso di andare a mangiare lì, da Saltini.
Così quel giorno di dicembre sono partito in macchina, ho fatto tutta la strada, attraversato paesi e guidato lungo gli argini tra le province di Parma e di Mantova – sono sempre viaggi pieni di sorprese e meraviglia, in cui ci si imbatte in desolazioni popolate di incontri strani, scorci inimmaginabili, rottami, vecchie chiese, insomma, mille cose che uno prima non sospettava – e sono arrivato nella bellissima piazza rettangolare di Pomponesco, che si conclude con una porta senza porta di cui ho parlato nello scorso numero di Mollette e che è stata fotografata una volta da Luigi Ghirri.
Sono sceso dalla macchina, c'era una leggera pioggia che non si capiva se era davvero pioggia o nebbiolina, ho sentito i miei passi risuonare nel vuoto della piazza spopolata e ho visto spuntare da sotto il portico che costeggia la piazza la testa di Davide che mi salutava e si avvicinava poi a me.
'Hai visto che roba?' mi ha detto quando è stato vicino. 'È una piazza bellissima' e lo ha detto con gli occhi pieni di un fervore infantile e felice che compare negli occhi di Davide in certi momenti precisi, che sono poi quelli che ci accomunano, secondo me, cioè quelli in cui ci troviamo in posti o accadono cose che sono poco interessanti, di solito, ma che a noi ci accendono. Come i bar della Bassa con le sedie di plastica, la piazza di
Pomponesco o gli Antichi Egizi. Ma non gli Antichi Egizi veri, quelli da Historical Channel, no. Quelli che per esempio si trovano a Pomponesco, e noi non lo sapevamo neanche, ma alla fine abbiamo deciso di parlare di Egizi proprio per quello, per via di Pomponesco.
Così, abbiamo finito di salutarci, abbiamo fatto le solite chiacchiere in cui parlavamo di cose viste o lette, di un albero o di una finestra, di scrittori che si danno molte arie, e poi siamo entrati dal Cavalier Saltini, cioè al Ristorante Cavalier Saltini, un posto che appena entri ti cade l'occhio sulla targhetta fissata a una porta di legno con la scritta GABINETTI. Mica toilette, o WC, o bagni. No, gabinetti.
Gabinetto è una parola così rinfrancante che si capisce perché ci siamo trovati là, in quel ristorante che appesi alle pareti ha dei quadri di Ghizzardi e Vittorini e dove si mangiano cose prelibate come la spalla cruda, il culatello, la culatta, tutti serviti col luadèl, che è una focaccia servita calda di Pomponesco, e poi i tortelli di zucca, il germano reale al forno, le lumache, il capriolo coi funghi e i dolci e tutto il resto.
Il cameriere ci ha fatto cenno di sederci senza dirci niente, con l'aria scostante che a noi ha fatto piacere, ci siamo seduti, abbiamo guardato il menù, scelto cosa mangiare, bevuto dell'ottimo lambrusco mantovano, ci siamo alzati molto soddisfatti, con l'idea di portare là altra gente che sapevamo avrebbe apprezzato il Cavalier Saltini di Pomponesco e ci siamo fermati a guardare dei quadri di Ghizzardi che Davide mi aveva già indicato.
Poi siamo tornati nella prima sala, quella della cassa e dei gabinetti, e ci siamo fermati a parlare col proprietario, in particolare delle due pareti dipinte in quella sala. Una bucolica, una egizia.
Davide ha chiesto al proprietario 'Ma come mai questa pittura egizia?' e il proprietario ha iniziato a raccontare. Ha detto, più o meno, 'un paio di anni fa abbiamo deciso di fare dipingere le due pareti, abbiamo chiamato un pittore di queste parti e gli abbiamo detto che poteva dipingere quello che voleva. Così' ha detto indicando la parete alla sua sinistra, 'lì ha dipinto il Po e poi, quando è stato il momento dell'altra parete' e si è girato indicando la parete di fronte, 'ha chiesto se poteva proprio dipingere quello che voleva. Gli abbiamo detto di sì, lui ha detto che erano tanti anni che voleva dipingere una roba egizia, ha chiesto di nuovo se poteva fare quello che voleva, noi gli abbiamo detto di sì e lui ha dipinto quella, ma a saperlo non glielo lasciavo mica fare, che ci ha messo tre mesi, con tutte quelle figure e quei geroglifici'.
Davide ha rifatto quella faccia con gli occhi pieni di fervore infantile, io ero rapito a mia volta, che trovare un dipinto egizio a Pomponesco perché sì, perché lo hanno lasciato fare al pittore incaricato che aveva quel sogno, è una cosa così rapinosa e piena di sbilenca vitalità che rimette in sesto dai guasti della vita. È un ribaltamento delle cose proprio come la vedevano gli egizi.
Infatti è stato in quel momento che ho detto a Davide 'il prossimo Mollette lo facciamo sugli egizi' e Davide ha detto subito sì e gli ho raccontato una cosa che ho scoperto leggendo Hypericon di Manuele Fior, il fumetto pubblicato da Coconino, in cui si racconta dell'amore di due giovani italiani a Berlino alla fine degli anni '90 e, in parallelo, di Howard Carter che scopre la tomba di Tutankhamen.
Lei si chiama Teresa, lui Ruben e lei è a Berlino per via di una mostra su Tutankhamen, visto che studia archeologia, e a un certo punto spiega come vedevano il tempo gli egizi. Nella loro cognizione spazio-temporale, che per noi prevede che il passato sia dietro di noi e futuro di fronte a noi, le cose cose sono invertite. Il futuro, per loro, stava alle loro spalle, dal momento che non poteva essere visto ed era ignoto. Il passato, invece, poteva essere conosciuto, era visibile perché già vissuto e quindi si dispiegava nella sua interezza di fronte all'osservatore. Sul sarcofago di Tutankhamen è riportata questa iscrizione:
DAVANTI A ME VEDO QUELLO CHE È STATO. DIETRO DI ME, TUTTO QUELLO CHE SARÀ.
A pensarci bene, ho detto a Davide, gli Egizi forse avevano ragione. Chi avrebbe mai detto che a Pomponesco avremmo trovato un affresco egizio? Questo futuro ignoto è sfalsato rispetto al passato che vedevamo e che ci ha condotto qui, sulle onde dei ricordi, a Pomponesco? Cosa vogliono dirci gli egizi di Pomponesco?
A noi era soprattutto piaciuto lo slancio dei titolari del Cavalier Saltini che avevano lasciato fare il pittore. Che fare le cose perché sì è un modo di dire al futuro dietro alle nostre spalle che da là dietro può fare quello che vuole, tanto non lo sappiamo, finché non accade.
Dopo siamo andati sull'argine, attraversando la porta senza porta fotografata da Ghirri e abbiamo parlato di noci in mezzo alla strada, nel nulla dell'argine di dicembre, che è un posto che non interessa a nessuno e che nessuno vede perché è alle nostre spalle.
Gli egizi sono scomparsi. Succederà anche a noi.
A UN CERTO PUNTO
di Marco Truzzi
A un certo punto - entrati da poco nel nuovo millennio - la gente ha cominciato ad andare in Egitto. Io non ci sono mai stato, in Egitto, e quindi non so, forse la gente andava in Egitto anche prima, prima cioè che me ne accorgessi io, non posso saperlo con esattezza. Ho provato a fare un ricerca su Google - “quando la gente ha cominciato ad andare in Egitto?” - ma senza molta fortuna. In effetti, a pensarci, ci sono molti film, anche vecchi film, dove si vede molta gente che va in Egitto: Hercule Poirot, per esempio, in “Assassinio sul Nilo” è in Egitto insieme a un sacco di egiziani, ma insieme anche a un sacco di non egiziani. E che dire di Indiana Jones? Insomma, la cosa in sé non avrebbe dovuto sorprendermi e invece lo fece, come tutti i fatti che accadono e che io invece ignoro. Era come un cerchio che si stringeva sempre più attorno a me, un cerchio fatto di gente che andava in Egitto - chi sul Mar Rosso, chi a vedere le piramidi di Giza, chi a fare una crociera sul Nilo - e poi tornava e mi diceva “senti, ma perché non ci vai anche tu, in Egitto?”. Già, perché non ci sono andato anche io? Nel tempo, ho provato a razionalizzare questa presa di posizione: non mi piace il caldo, ho paura dei serpenti e anche degli scorpioni, sono ipocondriaco - la gente che va in Egitto pensa che sia sufficiente lavarsi i denti usando le bottigliette sigillate di acqua naturale, ma noi ipocondriaci sappiamo bene che non è così, che il pericolo di morte immediata può nascondersi ovunque - e poi, diciamolo: mi stanno sui coglioni gli egizi - gli “egizi” sono quelli della “civiltà egizia”, gli “antichi egizi”, perché i moderni si chiamano, invece, egiziani - con tutte le loro minchiate sull’aldilà e sui geroglifici. Sono ottime ragioni, dal mio punto di vista. Temo, però che siano più che altro tentativi di nascondere la verità, anche a me stesso. Una scomoda verità. Una verità che porta il nome di Usai. A Sant’Ilario d’Enza ci sono molti Usai, è un cognome piuttosto diffuso. Quando con la mia squadra di calcio andavamo a giocare a Sant’Ilario, contro l’FC70 (così si chiama la squadra di Sant’Ilario, non “Santilariese”, ma FC70), capitava che in distinta ci fossero anche tre o quattro Usai. Ma il mio Usai non giocava nell’FC70, almeno non che io sappia. Usai è il nome della mummia che c’è al Museo Egizio di Bologna. Usai è una mummia semplice, non era un faraone, era una specie di “entry level” nel ramo della mummificazione, uno che ne aveva usufruito per il rotto della cuffia. Sta lì, in una bacheca del Museo Egizio, giunto a Bologna più o meno a metà del XVIII secolo. Adesso scrivono che la sua “visione può provocare turbamento”, ma a metà degli Anni Ottanta non c’erano tutte queste preoccupazioni. Io l’ho incontrato per la prima volta che ero in terza elementare e ci avevano portato al Museo Egizio di Bologna per farci vedere un po’ di cose, appunto. Solo che la sera prima - vai a fare dei ragionamenti sul caso - su Italia Uno avevano dato un film, “Alla 39esima eclisse”, un horror con Charlton Heston su una maledizione legata a una mummia malvagia. Charlton Heston deve avere qualcosa di personale contro gli egizi, visto che nei Dieci Comandamenti ne fa fuori un bel po’, ma questo è un altro discorso. Fatto sta che quasi tutti i miei compagni di classe maschi avevano visto quel film, la sera prima. Io no. Io no perché a casa mia la nostra tv era molto vecchia e si prendevano solo i canali Rai e, per ragioni mai chiarite, Telemontecarlo (ma anche dopo, quando poi vennero fuori, in qualche modo, tutti gli altri canali, cadde una fatwa famigliare che colpì - giustamente - tutte le “trasmissioni di Berlusconi”).
Il mio amico Nicola, comunque, ci tenne tantissimo a raccontarmi la trama della “39esima eclisse” proprio davanti alla teca di questo Usai. Poi andò nell’altra stanza, dove c’erano sparsi un po’ di statue e di vasi canopi. Ma io rimasi lì, osservando attentamente quel cadavere, perché nel caso avesse provato a muovere anche solo un dito io lo avrei scoperto e lo avrei subito detto alla maestra. Quel giorno, Usai non si mosse. Posso dirlo con certezza perché rimasi a osservarlo tipo un’ora, mentre tutti gli altri si entusiasmavano per la sagoma di un gatto mummificato. Dopo quella volta non rividi più Usai, perché sono tornato al Museo Egizio di Bologna, ma lui era sempre “in manutenzione”. Però io, ugualmente, non mi fido. Quella storia mi è rimasta dentro, Usai come quel dannato ET che spuntava dall’erba alta di notte o Grimilde di Biancaneve. Sono traumi, c’è poco da fare. Quindi io, tutta quella gente che a un certo punto ha cominciato ad andare in Egitto no, non l’ho mai invidiata. E anche tutti quelli che son diventati matti per Christian Jacq, che mi dicevano “ti piace leggere, perché non leggi l’ultimo di Christian Jacq?”: ecco, io, invece, ho sempre preferito Steinbeck.
LA PIRAMIDE DI MERUWT NETJER
di Valentina Cesarini
Un nuovo giorno albeggiava, un nuovo calore le avrebbe presto disegnato sulla chioma le ombre dei suoi profili perfetti.
La piramide di Meruwt Netjer, detta per comodità Meruneti, o anche Meruzzella per la gente che veniva dal sud, piano piano si destò e come ogni mattina degli ultimi centododici anni si sentì triste.
Era triste perché già sapeva come sarebbe andata quella giornata, come la precedente e come quella prima e via di seguito: tra meno di un’ora sarebbe cominciato l’afflusso disarticolato e ingombro dei turisti, con quell’urgenza addosso di penetrarla senza discrezione, senza amore. Con quelle voci irritanti, sempre uguali. Quelle esclamazioni sorprese, quegli Ohhhhh, mentre si aggiravano nelle cavità dei suoi corridoi come se fossero dentro uno zoo, quegli Uhhhh, come se stessero calpestando il tappeto elastico di un parco divertimenti. E dire che nel suo nome compariva perfino la parola “sacro”, ma nessuno sembrava più abituato a mettere del sacro nell’infilarsi all’interno delle nicchie segrete. I turisti la ispezionavano attraverso mirini di macchine fotografiche o schermi di cellulari, si sentivano così importanti ad aver raggiunto quel luogo lontano e divino con facilità, che prestavano maggiore attenzione a portarsi a casa quanti più ricordi possibili da mostrare come trofei ad amici e parenti, piuttosto che domandarsi se a Meruzzella tutto quell’inutile baccano spiacesse.
«Non permetterò più a nessuno di questi molluschi di accedere al cuore. Lascerò credere loro che sono fatta solo di pietra calcarea e granito, nient’altro».
E in effetti era diventato impossibile raggiungere la camera funeraria in cui millenni prima il faraone era stato deposto. La leggenda narrava che Meruzzella, anche detta Meruneti dalla gente del nord, oppure Piramide di Meruwt Netjer (che significa del Sacro Fiume), centododici anni prima si fosse innamorata di un turista eritreo, un giovane alto, slanciato, sorridente e gentile, che prima l’aveva incantata con i suoi modi cortesi, dedicandole una poesia mentre percorreva i corridoi e le stanze al suo interno, e poche ore dopo era uscito senza farsi mai più vedere, tornando alla sua vita come se niente fosse. Meruzzella, per il dolore e la rabbia, aveva tremato così forte che alcune pareti erano crollate e la camera più interna, quella appunto del faraone, era diventata inaccessibile.
Un nuovo giorno albeggiava, e Meruwt Netjer, imbiondendosi coi raggi del sole, non sapeva che quel giorno sarebbe stato completamente diverso.
Sentì delle voci avvicinarsi, ma non si trattava di una schiera di disgustosi militanti della villeggiatura.
«Prego, entri pure. Come promesso, quest’oggi avrà due ore per esplorare senza turisti intorno, poi riapriremo al pubblico».
«La ringrazio infinitamente. È il momento più importante della mia vita, devo riuscire a trovare quella camera, a scavare nelle pareti e ridare vita a questo luogo per scoprire la sua storia».
«Lei è proprio testardo, stia attento perché è molto rischioso. La aspetto qui fuori».
Le superfici esteriori di Meruzzella arrossirono d’un botto. Questo pazzo aveva davvero intenzione di rischiare la propria vita per conoscerla e arrivare al suo cuore?
Era un archeologo libanese con le orecchie a sventola, i capelli un po’ neri e un po’ grigi, mossi, spettinati in quel modo ordinato che addolcisce i volti, gli occhi grandi, ma davvero grandi, color ebano, e una bellissima ruga in mezzo alla fronte che sbucava quando arricciava le sopracciglia per concentrarsi. Appena la penetrò, Meruzzella provò qualcosa di nuovo, che mai aveva sentito, nemmeno con quello stronzo di turista eritreo sparito nel nulla della sua nullità.
L’archeologo le parlò, sottovoce, con delicatezza. Le pareti ebbero una lieve scossa, quasi impercettibile. Appoggiò il palmo della mano sul granito che svapava polvere e sentì un calore che non aveva mai sperimentato. Un calore forte, potente, distruttivo, che però lo stava accogliendo. Meruwt Netjer, che conosceva bene tutti gli uomini del mondo, temette di spaventarlo e farlo scappare. Ma Meruwt Netjer non conosceva lui, che aveva dedicato l’intera vita allo studio del suo corpo e a come sconfiggere quell’ammasso di detriti impenetrabili che proteggevano il cuore: la camera del faraone. Più si avvicinava al centro del labirinto di nicchie, più le parlava e accarezzava le pareti. «Sono qui, finalmente. Non me ne andrò finché non mi farai entrare nel cuore». E lei, succhiando il vento del deserto per farlo girare nei corridoi e trasformarlo in suono, rispondeva «Se entri nel cuore, non ti permetterò più di uscire». E lui, accennando un sorriso compiaciuto «Allora non me ne andrò mai più. Ho vissuto, scoperto e catalogato tante cose meravigliose nella mia vita, ma questo calore è sacro, e io non voglio perderlo». Meruwt Netjer si arrese. Le pietre dei detriti che ostacolavano il passaggio rotolarono improvvisamente e aprirono un varco che l’archeologo attraversò. La camera del faraone era dorata. Era emozionante, era un altare dedicato al segreto più bello che avesse mai conosciuto.
Le sussurrò «Ciao, sono qui».
Lei rispose «Ti ho aspettato tanto».
Lui iniziò a toccare, massaggiare e assaggiare ogni centimetro della camera.
Finché le disse «Abbracciami», e un torrente impetuoso si rovesciò dall’alto travolgendo tutto ciò che trovò, il faraone, il granito, l’oro, l’archeologo.
La piramide di Meruwt Netjer, che vuol dire Sacro Fiume, ebbe l’ultima scossa violenta e si ripiegò su se stessa, inondata di acqua e calore.
EGITTO UNO
di Alessandro Schiapparelli
Domenica 19 Febbraio 2023 Bar Sassi ore 10:55
Ho preso fuori da portafoglio il biglietto. Il biglietto che mi ha venduto il vecchio. Quello che ti porta dove vuoi. Che bel regalo. Sono al bar e mi sto rompendo i coglioni. È febbraio e c'è freddo. Mi siedo sulla panca fuori a fumare e finire la mia birra. Prendo il biglietto fra le mani e lo stringo forte. Chiudo gli occhi. Cerco di non pensare e di farmi portare dove vuole la parte recondita della mia mente. Un lampo e sento caldo. Sono seduto. Sulla sabbia. C'è molto caldo. Apro gli occhi e non capisco. Boh: di fronte a me c'è una piramide. In costruzione. Cazzo, non sono nel 2023. Evidentemente. E sono in Egitto. Ovviamente. Che figo sto biglietto. Vedo gli schiavi che trascinano le pietre per costruire la piramide di un qualche cazzo di Faraone del mio cazzo. Sono abbastanza lontano. Ho un caldo bestia. Qua non è Febbraio. E, se lo è, fa caldo lo stesso. Non mi ricordo in che cazzo di anno possiamo essere. Sento una puzza della madonna. Mi volto e vedo un tipo che si avvicina con il suo cammello stracarico di roba. Salve. Mi risponde e lo capisco. Cazzo: sto biglietto fa i miracoli. So anche l'egiziano. Chi sei? Uno che è venuto in tuo aiuto. Mi manda il vecchio. Ah. Capisco. Vestito così non centri niente. E, poi, avrai caldo. Si, hai ragione. Ti do io da cambiarti. E mi cambio. Sono solo bianco come il latte che, invece, qua sono tutti abbronzati. Da me era Febbraio. Ok, sono vestito da egiziano. Ho una sete incredibile. Dove andiamo? Chiedo. In città a bere birra. Già: l'hanno inventata gli Egizi. Mi ricordo. Bene, andiamo. Si, mi dice, mi ha detto il vecchio che ti piace, la birra. E che ti piace anche la figa. Già. Gli rispondo. So io dove andare. E ci avviamo. Camminare sulla sabbia non è molto facile. È faticoso. Arriviamo alla città e c'è una puzza incredibile. Ma mi ero già vaccinato con la puzza del cammello. Ci addentriamo nella città. A un certo punto ci fermiamo davanti ad una specie di bettola. Il tipo lega il cammello ad un bastone. E entriamo. Ci sono dei tavoli e ci sediamo. Ordina lui. Io non ho soldi. O non so come cazzo si paga qui. Arrivano ste due birre in due ciotole. Sono perplesso. Di sicuro non è fredda. I frigo sono stati inventati un po' dopo. Ah,ah... Alla tua salute, amico del vecchio. Alla tua. Mi risponde lui. Benvenuto in Egitto. E beviamo. Boh, un gusto strano. Ma mi adeguo che la finisco in un attimo. Ne ordiniamo altre due. Mi comincio ad abituare al gusto che mi piace. Insomma: ne beviamo che perdo il conto. Sono stanco, gli dico. Qui hanno anche delle camere. E osservo la cameriera. ok. Paga te e fammi portare la cameriera in camera. Sono sbrigativo, quando voglio. Entro in camera e c'è un discreto giaciglio. Mi stendo e, poco dopo, sento bussare. Entra sta bella e giovane ragazza. Ha anche due belle tette. E i capelli neri. Neri neri. Capisco l'egiziano e le dico di spogliarsi. Anch'io mi svesto. Sono nudo sul letto e, lei, nuda in piedi di fronte a me. Le faccio cenno di sdraiarsi. Chissà com'è scopare un egiziana del 2000 avanti cristo. Probabilmente è uguale ai nostri tempi. Le cose non cambiano mai. Infatti, è così. Finisco sfinito. Dalle birre e dall'orgasmo. Come è finita la batteria del mio computer adesso. Perciò stringo il biglietto e me ne torno a casa senza, prima, non aver baciato e salutato la ragazza. Torno in bar. Sono le sei e mezza e, i miei amici, arrivano finito il lavoro. Avrò parecchio da raccontare. Bene. Un'altra giornata è passata. Andatevene affanculo...
EGITTO DUE
Giovedì 23 Febbraio 2023 Bar Sassi ore 19.34
Bene. Sono tornato a casa. Sono le sei e mezza. E, i miei amici sfigati sono al bar. Mi hanno già rotto il cazzo. Quindi cosa faccio? Esco a fumarmi una sigaretta mentre finisco la mia birra. Prendo il biglietto. Voglio tornare là. Che si scopa e si beve. In un altro lampo sono là. Seduto al tavolo con il mio amico amico, del vecchio che mi aiuta. Ciao. Sono di nuovo qua. Ciao. Scopa bene la cameriera? Direi di si. Non mi ricordo. Prendiamo altre due birre che è meglio. Non so che cazzo di ore sono. Il mio amico accetta. Tanto le paga lui. O il vecchio per lui. Beviamo. Quella cazzo di bevanda che qua si chiama birra. La cameriera, quando ce le porta, ci fa un sorriso. In particolare, a me. Si vede che l'ho scopata bene. O che sono gentile. Beh, è successo dieci minuti fa. Questo biglietto fa i miracoli. C'ho lo schioppo ancora carico e vorrei scoparla un'altra volta. Ma, prima, bisogna bere. Necessario. Per continuare a vivere. Decentemente. Pensavo al cammello che avrà una sete là fuori al sole. Gli porto dell'acqua che mi faccio dare al bar. Se si può chiamare così. Beve avidamente. Bene. Mi piace sto cazzo di Egitto del 2000 avanti cristo. Mica tanti problemi. Come da noi. Io non voglio problemi. Mi rompono il cazzo. I problemi. Infatti sono problemi. E bisogna evitarli. Il più possibile. Per vivere bene. Il meglio possibile, comunque. Beviamo la birra e, la cameriera, mi continua a fare l'occhiolino. Pocamadonna, si vede che l'ho scopata proprio bene. Oppure, che è più probabile, il tipo l'ha pagata proprio bene. I soldi fanno tutto. Anche i miracoli. Mi viene in mente una puttana della mia città che vorrei scopare. Solo che abbia i soldi. E la voglia. Beh, la voglia di scopare c'è sempre. Finché ti tira. No, la voglia non passa mai. Anche quando non ti tira più. È questo il dramma. Quando non ti tira più. Io mi impicco. Quando succederà. Cazzo stai a fare al mondo? A bere e basta. E fumare. Non ha senso scrivere quando non puoi più scopare le eventuali fans. Nessun senso. Per questo scrivo. Per scopare le fans. Mica per altro. Del resto non me ne frega un cazzo. Beh, dei soldi si. Per comprarmi una casa di campagna col camino. Ecco, cosa mi importa. Da accendere anche in Agosto. Non me ne frega un cazzo. Ok: ho deciso. Se il biglietto me lo permette, porto l'egiziana a casa. Nel letto di casa mia. Che non pulisco da due anni. Tanto c'è abituata alla sporcizia. Glielo chiedo. Vuoi venire da me? Si. Mi risponde candidamente. Ok, prendi tra le tue mani, assieme alle mie, il biglietto. Un altro lampo e siamo a Carpi. A casa mia. In soggiorno. Hai fame? Si. E, allora, le faccio una pasta. Mangiamo. Lei, col biglietto, parla italiano. Finiamo di mangiare. Ok. Adesso si scopa. A casa mia. Ok. Cazzo, ha anche imparato a dire ok. Ci avviamo verso la camera che si sente la puzza. Ma, lei, c'è abituata. E, io, pure. Bene. L'abbraccio e la bacio. Ci stendiamo sul mio letto e facciamo l'amore. Beh, se non altro, scopiamo. Che bello. Un bel salto di 4000 anni, per lei. E per me. Ma le fighe sono tutte uguali. Basta che abbiano due belle pere. Come lei. Dormiamo, finalmente. Nel mio letto. La mattina la sveglio e le dico, stringi il biglietto. E se ne va. A me, ad un certo punto, mi si rompono i cogilioni. Anche di una bella figa. Ciao, egiziana. Tornatene da dove sei venuta che è meglio. Adieu...
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COSE POCO CONOSCIUTE SUGLI ANTICHI EGIZI
di Jacopo Masini
Gli antichi egizi non sapevano di essere antichi.
Gli antichi egizi non hanno fatto in tempo a scoprire di essere antichi perché sono scomparsi tutti prima.
Cleopatra aveva sparso la chiacchiere di essere molto bella, ma per gli egizi era troppo alta e non se la cagava nessuno.
Gli egizi a due dimensioni sono finiti dentro i geroglifici. Gli egizi a tre dimensioni sono diventati statue o mummie.
Il sogno degli egizi era aprire una agenzia di pompe funebri e di farsi ingaggiare da un faraone, che con un solo funerale sistemavano la famiglia per due o tre generazioni.
Solo che c'erano molte agenzie concorrenti e aprire un'agenzia nel deserto dentro una tenda non è comodissimo, che i depliant, i campioni di piramide, i pantoni con i colori e gli ori per gli affreschi, i vasi, insomma tutto l'armamentario dell'agente di pompe funebri con la sabbia si rovina facilmente.
Poi, alla fin fine, andava bene solo a una agenzia per faraone, quindi era un lavoro con un altissimo rischio imprenditoriale.
Secondo alcune fonti, nel corso dei secoli sono fallite 11887 agenzie di pompe funebri egizie e hanno fatto fortuna circa 323 agenzie, anche se non si sa di preciso, visto che ogni due o tre anni salta fuori un faraone nuovo e cambia tutto.
Gli antichi egizi, da questo momento solo egizi, non avevano i bar. Infatti si annoiavano moltissimo.
Gli egizi avevano inventato il golf, ma non sapevano come fare a giocarci.
La battuta preferita degli egizi era muta. Dopo si capisce perché.
Quando due egizi si mettevano a litigare tante volte succedeva che cominciavano a lanciarsi pezzi di piramide ed è per quello che adesso mancano tutti quei pezzi.
Agli egizi il deserto piaceva moltissimo, perché secondo loro il mondo era tutto deserto.
Il deserto è stato inventato dagli egizi.
Le prime piramidi erano di cartone, poi si sono accorti che con il vento e le tempeste di sabbia volavano via, e le hanno fatte in legno.
Le piramidi di legno sono rimaste quasi tutte incompiute, perché nel deserto c'è pochissimo legno. Infatti son durate poco, non ne sono rimaste. Dopo le hanno fatte in muratura.
Gli schiavi erano pagati profumatamente. Guadagnavano più dei faraoni e infatti non facevano un cazzo, passavano la vita a fare il bagno nel Nilo. Le piramidi sono state costruite dai figli degli schiavi, che lavoravano gratis.
L'Egitto, prima che lo scoprissero, non esisteva.
L'Egitto è fatto a forma di costellazione di Euroformio, che dobbiamo ancora scoprire.
Gli egizi non parlavano mai, perché non erano capaci di leggere i geroglifici.
Avete mai sentito qualcuno parlare in geroglifico? No, infatti.
Adesso avete capito la faccenda della battuta.
Il cibo preferito degli egizi erano i pop corn.
Lo sport preferito degli egizi era il free climbing ed erano tristissimi che non potevano mai praticarlo.
Alle donne egizie piacevano molto gli uomini biondi e sono rimaste quasi tutte zitelle.
Tutti gli egizi sono stati generati da 37 donne a cui piacevano gli uomini con gli occhi scuri.
Agli uomini egizi non piaceva quasi niente, a parte fare gli schiavi, fare dei figli, cazzeggiare sulle rive del Nilo e mandare i figli a lavorare.
L’oroscopo egizio diceva tutti i giorni di stare attenti che l’estinzione era vicina, ma nessuno credeva all’oroscopo. Fate voi.
Degli antichi egizi, di fatto, si sa pochissimo.
Secondo alcuni non si sa niente.
Ma niente niente.
LA BIRRA DI RAMSETE II
di Igor Ebuli Poletti
Il giorno in cui Ramsete II, il cui vero nome sarebbe Usermaatra Setepenra Ramess(u) Meriamon e che per ovvi e intuibili motivi di salivazione azzerata del pronunciante veniva chiamato da tutti più agevolmente Ramsete, dai più intimi Ramy, si svegliò con una incontenibile voglia di birra era un giorno come tanti altri nell’Egitto del XIII secolo; le piramidi erano tutte al loro posto, il Nilo faceva il Nilo, cioè scorreva, le palme facevano le palme, cioè niente, e la sorella maggiore di Usermaatra pensava che il fratello fosse intimamente un immane rompicoglioni, sempre in movimento, sempre agitato, incapace di stare fermo. Sarà per questo motivo che si era svegliato con questo desiderio di birra, questo si muove anche quando dorme, suda, perde liquidi, deve rimpiazzarli. Anche i faraoni sudano, pensava Tia. La birra preferita da Ramsete si chiamava henqet ed era fatta con la farina di orzo o di frumento, si formavano dei piccoli pani di birra che venivano prima insaporiti con spezie, datteri e miele e poi lasciati fermentare per alcuni giorni, il liquido che se ne otteneva era la birra, non solo del faraone ma di chiunque avesse voglia di berla, anche se siamo portati a ritenere che il faraone godesse di una qualche forma di vantaggio sul resto della popolazione, se no uno eviterebbe anche di farlo, il faraone. Un sacco di burocrazia, qualche guerra da fare per tenere impegnato l’esercito, le piramidi da manutenere, i problemi col personale che potevano essere risolti con qualche saggia e tempestiva frustata ma che erano, in ogni caso, scocciature, una bella birra fresca era la soluzione ideale, oltre che essere assolutamente perfetta come antidoto al morso degli scorpioni e come rimedio ai dolori intestinali: uno dei vantaggi che non conoscevano decadenza dall’esistere nell’essere faraone era quello di poterla bere senza avere il piloro infiammato o senza essere stato visitato da uno scorpione annoiato.
C’era però un problema, una cosa, anzi, una persona che si frapponeva con fermezza tra il faraone e il suo smodato, soprattutto d’estate, desiderio di birra, e questa persona era la moglie del faraone, Nefertari, che la birra, lei, la odiava. Vedeva il marito “con la sabbia del deserto nel cervello” quando ne beveva troppa “vedi palme anche dove non ci sono” “vai a sbattere contro lo spigolo est della piramide, sempre quello, quando bevi la birra” “molto meglio il latte d’asina, disseta e non ha controindicazioni”. Poteva berla senza incorrere in perigliose e inestricabili rampogne coniugali solo durante le feste in onore della dea Tefnut, che essendo faraone decise di rendere mensili, avendo scoperto di provare una stima incoercibile per Tefnut, che associava alla quantità di birra fresca che riusciva a deglutire senza che la moglie potesse sospettare che fosse solo una scusa per bere, cosa che la moglie sapeva benissimo ma che come tutte le mogli del mondo di ogni epoca fingeva di non vedere, tanto lo avrebbe sistemato in altro modo, Non solo: Ramsete, in combutta col suo scriba più fidato, Amonherkepeton, fece inserire la birra tra le cose necessarie al defunto per il lungo viaggio nell’oltretomba falsificando un testo dell’Antico Regno del III secolo: lo fece prima della terza campagna siriana e quando la moglie era fuori casa con un gruppo di amiche, essere faraone significa anche prevedere i pericoli e, se possibile, schivarli. Molta birra venne consumata quando dovete assistere alla costruzione del Tempio Maggiore, con 4 statue alte più di 20 metri che lo raffiguravano in tutta la sua imponenza (contrariamente alle caratteristiche fisiche del suo popolo Ramsete II era molo alto, superava il metro e ottantacinque di statura, lui attribuiva questo fatto alla birra e sua moglie al caso), molta ne venne bevuta quando nel tempio minore dovette fare correggere più di una volta il naso di Nefertari, che la diretta interessata considerava non sufficientemente diritto, e moltissima venne bevuta in compagnia dei suoi generali. Quando sentiva parlare di sala ipostila, lui lo sentiva in egiziano e noi no, Ramsete II sentiva aumentare progressivamente e inevitabilmente la sete, e la birra diventava la sua incontaminata isola di quiete. Quando attraversò in Siria il Nahr el-Kalb, il fiume del cane, Ramsete II aveva voglia di birra, quando arrivò a Dapur dove gli venne dedicata una statua, gli venivano dedicate spesso statue, Ramsete II aveva aveva voglia di birra, quando era nella valle che lo avrebbe portato davanti al monte Seir aveva voglia di birra, quando passava in rassegna le divisioni Ram Ptah, Amon e Seth del suo esercito aveva voglia di birra, quando decise di concludere un trattato con il re Hattušili III che segnasse la fine di ogni conflitto, mettendo mano al più antico trattato di pace della storia, redatto in due versioni, una in geroglifici egizi e l’altra in caratteri cuneiformi, aveva voglia di birra, in tutti questi posti la moglie non c’era, e il suo desiderio di birra veniva assolto in modo faraonico, appunto. Ramsete II passò buona parte della sua vita a conquistare terre, a creare la dinastia ramesside e a bere birra, il che dovette fargli molto bene, essendo morto a una età folle per il periodo, 90 anni suonati e bevuti. Su una delle sue tante statue, quelle che ricordavamo prima, si legge questa frase “Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese”; qui non viene citata la birra, probabilmente la moglie era presente.
GLI EGIZI
di Carlo Moretti
Stienta (Rovigo) monumento equestre con fontana.
Piazza Santo Stefano
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