UFO
di Piermaria Leandro Romani
UFO PIEMONTESI
di Jacopo Masini
Erano sere di scoramento, nella mia vita torinese. E così, appena potevo, prendevo su la macchina, partivo da piazza Vittorio, attraversavo la città - i lunghi vialoni, i controviali incomprensibili a tutti quelli che arrivano a Torino e non ci sono mai stati, i palazzi austeri, gli alberi verdissimi e profumati in primavera, gli ingorghi e la facce piatte di chi torna a casa la sera a Torino, dentro il suo tinello maròn - e andavo verso Collegno dal mio amico Beppe di origine calabrese, che abitava nella taverna sotto casa dei suoi, calabresi. Un tavolo, un divano, una tv, degli amuleti che non funzionavano e, in quel periodo, un campo da Subbuteo.
Quando sono arrivato, quella volta - sarà stato più o meno il 2008 - ho trovato Beppe seduto per terra, il portatile posato sul mobile della televisione, alto circa mezzo metro, lo schermo aperto e lui con lo sguardo intento che sembrava analizzare dati importanti.
Ci siamo salutati e, prima che mi sedessi, ha fatto:
'Stiamo aspettando gli alieni'
'Chi?', ho chiesto.
'Siamo in tanti, in giro per il mondo. Siamo collegati al sito di questa tizia australiana che da qualche settimana ha raccontato che gli alieni l'hanno contattata e le hanno detto che stanno arrivando'
'Che cazzo stai dicendo?'
'Le hanno dato anche una data. Arrivano oggi, ma non sappiamo dove. Compare, per questo siamo collegati da tutto il mondo: il primo che li avvista avverte gli altri'
'Quindi niente Subbuteo?'
'No, compare. Devo star dietro a 'sta roba. Se poi arrivano e non me ne sono accorto?'
'Hai ragione', ho detto.
Così ha aperto una bottiglia, abbiamo cazzeggiato mentre teneva d'occhio i cieli del mondo dal sito della tizia australiana, abbiamo cenato – nel frattempo sono arrivati un altro amico e una tipa con cui usciva e faceva sesso il quel periodo – e alla fine ci siamo trovati tutti a domandarci se gli alieni stavano arrivando davvero o no. E, soprattutto, se era una bella cosa lo sbarco degli alieni.
Torino, una delle sue peculiarità, è che amano i misteri, la magia, la parapsicologia, quindi anche gli alieni. In via Po, che è centralissima, c’era una libreria dedicata alla magia bianca e nera – i torinesi più sul pezzo vi diranno che Torino è uno dei vertici di un triangolo di magia nera, ma anche di uno di magia bianca, unica città al mondo a condividere due triangoli opposti; che sotto la Gran Madre di sarebbe il Sacro Graal e infatti la Gran Madre è l’unica chiesa al mondo senza crocefisso sopra (anche a Parma ce n’è una in piazza Garibaldi, ma non gliel’ho detto o gli smontavo la mania torinese dei primati e non sta bene) – e il fatto di avere una libreria dedicata all’occulto, alla magia, alla parapsicologia in pieno centro dice molto della città, secondo me.
Negli anni, prima degli scoramenti profondi che mi hanno portato in seguito ad abbandonarla, a Torino ho conosciuto gente che mi ha raccontato di aver conosciuto Rol, di avere visto gli alieni dal Monte dei Cappuccini o dal balcone di casa appena fuori Torino, oppure di avere una zia strega o di avere partecipato a sedute spiritiche, o cose del genere. E senza che glielo chiedessi, erano cose che venivano fuori spontaneamente, come raccontare di essere andati a fare la spesa e i carciofi costavano tantissimo, o che in Corso Francia c’è un traffico della madonna. Così.
Beppe è rimasto tutta la sera a guardare direttamente o con la coda dell’occhio il computer, sempre aperto sul sito della tizia australiana, aspettando un segnale da qualche zona del mondo, ma niente, non è arrivato nessun segnale, nessun avvertimento, nessuno che abbia visto in cielo un disco volante, un razzo, un alieno gassoso, liquido, o di qualunque altra forma o sostanza.
‘Però’ ho detto, ‘se arrivano e sono degli stronzi? Tipo il film di Tim Burton: arrivano, fingono di essere amichevoli e invece ci inceneriscono tutti?’
‘Compare’ ha fatto Beppe, ‘non possono essere più stupidi di noi’.
Ho annuito, ho preso il bicchiere e mi sono versato del vino.
Ma la serata, alla fine, è arrivata appunto alla fine e gli alieni erano rimasti a casa loro, alla faccia della tizia australiana. Però la fede è una cosa seria, che non ammette prove empiriche e neanche il fatto che l’oggetto della fede non si manifesti, neanche all’una di notte.
Così, quando è arrivato il momento dei saluti, Beppe aveva una faccia sconsolata e non si dava pace. Mi ha dato un pezzo di ‘nduja come commiato - che l’avevamo mangiata a cena, mi era piaciuta molto, ne aveva a strafottere e me ne aveva dato un pezzo da portare a casa – e abbiamo fatto per salutarci, ma qualcosa non andava, non era persuaso.
‘Cosa c’è, compare?’, ho chiesto.
‘Secondo me arrivano’
‘Ma nessuno li ha visti’
‘E se arrivano e io me ne stavo a letto a dormire?’
‘Quindi? Vuoi stare alzato tutta la notte?’
‘Compare, se arrivano stanotte, di sicuro arrivano al Monte Musiné’.
Il Monte Musinè è un monte nei paraggi di Torino, a una quindicina di minuti da Collegno, se ti sposti di notte, quando per strada non c’è quasi nessuno. Un monte che svetta improvviso sulla terra piatta intorno, un po’ a punta, una specie di enorme gianduiotto con la punta.
Secondo i torinesi sul pezzo – gli stessi delle streghe, del Graal e tutto il resto – dentro il Musiné ci sarebbe una base aliena o qualcosa del genere. Quindi, se dovevano arrivare, sarebbero arrivati lì.
Ho vista una scintilla accendersi nei suoi occhi.
‘Cosa vuoi fare?’, ho chiesto
‘Andiamo al Musiné’
Ho scosso la testa. L’ho guardato.
‘Andiamo’, ho detto.
Siamo saliti in macchina e siamo andati.
Siamo arrivati in un paesino accanto al Musiné, era più o meno l’una e mezza di notte, e non trovavamo la strada per il monte. In una piazzetta abbiamo incontrato quattro ragazzi, un paio seduti in sella allo scooter, abbiamo accostato e abbiamo detto:
’Ci sapete indicare la strada per il Musinè?’
Ci hanno guardato perplessi, come si guardano quattro persone in un’auto, all’una e mezza, che chiedono indicazioni per il monte Musinè.
‘Di là’ hanno detto. E siamo ripartiti.
Dopo un po’ vedevamo il monte alla nostra sinistra, alto e scuro nella notte, ma nessuna strada che portasse direttamente in vetta o comunque sulle pendici. Ci siamo imbottigliati in una stradina che sboccava su una piazzetta circondata da villette a schiera e nessuno sbocco successivo.
Abbiamo parcheggiato, siamo scesi dalla macchina e mi sono accorto che nella tasca della giacca avevo il pezzo di ‘nduja che mi aveva dato Beppe.
Le portiere aperte, la luce dei lampioni, lo sguardo di noi quattro verso la cima del Musinè.
‘Che vuoi fare?’, ho chiesto.
‘Niente, compare. Non ci sono’.
Mi sono rigirato il sacchetto con dentro la ‘nduja tra le mani, l’ho tirata fuori dalla tasca, ho guardato Beppe, gliel’ho mostrato.
‘Pensa, compare’ gli ho detto, ‘se arrivano adesso, li accogliamo con un pezzo di ‘nduja’.
‘Cazzo, compare, c’hai ragione’ ha detto e abbiamo riso.
Siamo risaliti in macchina e siamo tornati a casa, verso Torino, verso i viali lunghi e deserti.
E gente che ciondola nella notte senza sapere perché.
COSÌ
DERIVE UFOLOGICHE
di Fabrizio Tavernelli
Il mio primo quartier generale di organizzazione di difesa dagli alieni (S.H.A.D.O.) era situato in una fredda cameretta al secondo piano di un caseificio dove abitavo e dove lavoravano i miei genitori. Il caseificio era piantato in una desolata campagna nella frazione di Marzano. Ci ho costruito una “narrazione” come si dice oggi, bastava aggiungere una “i” e l’avamposto terrestre si tramutava in Marziano. Ecco io abitavo a Marziano e questo legittimava l’intenso traffico extraterrestre e una attrattiva per visite, apparizioni, sbarchi e rotte galattiche. Un po’ di tecnologia era arrivata anche in quel casello dove i contadini ancora portavano il latte all’alba : il prete per scaldare il letto era ora elettrico, mia madre poteva farmi il bagnetto dentro una mastella nella sala caldaie, il parmigiano reggiano era però rigorosamente prodotto da strumenti e tecniche manuali e l’arte casearia era ancora lontana dall’apporto di macchine meccanotroniche. C’era però un apparecchio che con la sua comparsa aveva cominciato a comunicare agli abitanti della terra, un mezzo, un medium che avrebbe cambiato, ispirato, plasmato la cultura, gli stili, le visioni: la televisione. Onde che viaggiavano nell’etere, antenne di ricezione sui tetti di case coloniche, immagini e voci che uscivano dal tubo catodico per essere irradiate e raggiungere il nostro sistema neuronale. Da quello schermo si materializzava il mio immaginario, i raggi deviati da un campo elettromagnetico proiettati contro lo schermo al fosforo diventavano figure fluorescenti così come la campagna intorno che improvvisamente trasfigurava in un pianeta sconosciuto, selvaggio, popolato da creature non umane. C’era in particolare un appuntamento imprescindibile ogni Domenica pomeriggio che chiamava a raccolta bambini solitari, persi in geografie ignote, scossi dalla noia e chiamati a raccolta come adepti pronti alla grande mutazione, baccelloni, ultracorpi, dannati dagli occhi luminosi provenienti da villaggi troppo quieti. Il rituale era “UFO” un telefilm prodotto in Inghilterra dunque molto british, swinging london, psichedelico, futurista (oggi diremmo retro-futurista) un serial science-fiction ideato dai coniugi Anderson, gli stessi dei Thunderbirds e successivamente di Spazio 1999. Il telefilm era approdato alla RAI dal 1971 e io fui uno dei tanti piccoli discepoli che dalle province remote si nutriva del culto dell’interprete principale, il glaciale Comandante Straker.
Ne rimasi così invischiato e inglobato in un Blob da dedicare anni dopo persino una canzone con il mio gruppo degli anni ’90, gli AFA. Il brano, prendendo spunto dalla stilosissima sigla di Barry Gray si sviluppava in trame electro-space-rock per atterrare nella lunare e lunatica bassa emiliana. Era un inno salvifico, una richiesta di aiuto a ED Straker e con lui a tutto un efficiente apparato pronto a intervenire dalla terra, dal mare, dalla luna. Intercettori, base luna, sottomarini dotati di skydiver, ragazze supersexy dal caschetto viola (tra cui Gabrielle la sorella del grande Nick Drake) il convertiplano, elaboratori elettronici, telefoni cordless, veicoli high-tech e un satellite computerizzato, SID the Space Intruder Detector, che scansionava l’universo per segnalare le incursioni dei dischi volanti. Allarme Rosso! Allarme Rosso! Allarme Rosso! Era il segnale che gli UFO stavano entrando nell’atmosfera terrestre, alcuni non intercettati o colpiti sarebbero precipitati sul nostro pianeta. Il suono di quei velivoli ossessionante, sinistro, un sibilo creato con un sintetizzatore, è indelebilmente impresso nella mia memoria uditiva, è un mio significante, un po’ come le chitarre effettate con flanger/ chorus/delay , i bassi oscuri, le linee di synth dissonanti del post-punk. Alcuni di questi umanoidi venivano catturati e una volta tolto il casco ripieno di un liquido verde, rimosse le lenti a contatto opache, l’autopsia rivelava all’interno dei loro corpi, organi umani. Dunque quella era la missione aliena, rapire per procacciarsi materiale organico ma la cosa più inquietante è che potevano impadronirsi e controllare la mente umana e allora era come una esperienza lisergica e le scene si trasformavano in un bad trip sotto effetto di LSD, cosa che avveniva in quegli anni tra i giovani e in locali come l’UFO Club dove suonavano i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine e i primi gruppi psichedelici. Gli alieni si erano già impadroniti della mente e della coscienza di Paul Foster, dello stesso Comandante Straker e a un certo punto si erano pure impadroniti della mia mente. Così fu un effluvio, una vera incursione nella mia fantasia, una scorreria nel mio immaginario che filtrava o rianimava il reale, il quotidiano. La mia camera era piena di articoli e ritagli su avvistamenti , rapimenti, fotografie di dischi volanti, oggetti sigariformi, figure appena intraviste, sfocate, impercettibili che erano più manifestazioni inspiegabili del mio animo. In quei tempi bastava aprire un giornale per trovare cronache, annunci, rivelazioni, gli oggetti non identificati volavano nei nostri cieli, gli extraterrestri potevano sbucare all’improvviso da un fosso, un po’ era una psicosi, un po’ era la voglia di futuro, almeno fino a quando il futuro è stato possibile. Io stesso posso vantare qualche episodio sconcertante che non saprei catalogare, se in qualche piega temporale, in qualche realtà parallela, immerso in un liquido onirico o in una allucinazione ipnagogica. Il primo alla luce del sole, dove ancora riesco a stagliare le figure di mio padre, di mia madre e del garzone con il grembiule. Sono corsi fuori lasciando la cagliatura del formaggio, qualcosa li ha spaventati, osservano in alto dove a bassa quota sta sospeso un oggetto stranissimo e minaccioso. E’ come una mia madeleine fantascientifica, composta senza alcun criterio da elementi presi dal già nominato satellite della serie di Straker, da un modulo di allunaggio della NASA e da qualche sonda spaziale raffigurata nei fumetti. Tutta questa ricomposizione e ri-assemblaggio creativo non mi spiega però il fatto che io quella cosa l’ho vista, l’ho vissuta, la ricordo e ha posseduto il mio cervello. Il secondo episodio è al buio, mentre i miei genitori stanno chiudendo il caseificio dopo aver pulito e controllato le varie fasi di stagionatura. Io e mio fratello stiamo correndo tra le vasche piene di latte e tra una rincorsa e l’altra, finiamo fuori nel cortile e proprio in quel momento cinque piccoli globi luminosi ci sfrecciano intorno, appena il tempo di rimanere impietriti e quelle sfere di luce fuggono via mentre noi guardando alle nostre spalle rientriamo impauriti. Ci sarebbe poi un terzo e quarto episodio ma più avanti nel tempo, uno riguarda una nuvola che prende una forma sempre più definita e artificiale, il problema è che mentre si staglia quella navicella sono alla guida e sto litigando con la mia fidanzata, per cui fermiamo un attimo il nostro battibeccare…che cazzo è quella nuvola??? Pochi secondi di stupore e poi si ricomincia a urlare… sei uno stronzo! Sull’ultimo episodio, ammetto, ci ho un po’ lavorato sopra, cioè, qualche avvistamento sopra lo studio di registrazione a Sant’Agata c’era stato ma non proprio mentre c’ero io. Volevo citare l’atterraggio di UFO nel 1968 nella country house nel West Sussex dove bazzicavano Keith Richards e i Rolling Sones, volevo citare Roky Erickson dei 13th Floor Elevators che diceva di essere stato rapito e posseduto dagli alieni e poi ancora Bowie che cadde sulla terra, Sun Ra faraone proveniente da Saturno, il linguaggio quale virus da un altro spazio come scriveva Burroughs attraverso il vocoder di Laurie Anderson, il punk freak mutante dei Chrome, le astronavi funk di George Clinton, i Corrieri Cosmici tedeschi, gli overdrive interstellari , il pianeta Gong e altri trecentomila musici esoterici, visionari, mistici o semplicemente scoppiati. Le cose non cambiarono quando con la famiglia ci trasferimmo in un’altra frazione e in un altro caseificio a San Lodovico. Ero un po’ più grandicello ma l’afflato esplorativo era rimasto e al posto degli articoli ritagliati dai giornali, ora nella cameretta svettavano i miei disegni di oggetti volanti, navicelle spaziali, stazioni orbitanti e alieni assortiti. San Lodovico è un luogo psicogeografico, a fianco del caseificio dove ho vissuto si trovava Villa Pirondini dove i CCCP hanno registrato il loro album “Epica Etica Etnica Pathos” durante le sessioni in quella villa conobbi Massimo e Giovanni e con la loro etichetta, la Dischi del Mulo, incisi l’album dove è inclusa la già citata “Comandante Straker”. Di fronte al caseificio ancora oggi è possibile visitare l’incredibile presepe a grandezza naturale animato da fantocci e personaggi dalla struttura e dai tratti sfuggenti, nell’aria risuonano voci gracchianti di preghiere irradiate da chissà quale sistema a bassa fedeltà. Più che statuine, le sagome immobili sparse nel prato, sembrano una congrega di extraterrestri radunati per discutere le sorti dell’universo, diverse provenienze, diverso lo spazio-tempo, diversi i sistemi solari, diverse le galassie, diverse le dimensioni. In alto appesa a un pilone dell’alta tensione quella che dovrebbe essere la stella cometa ma che si rivela essere una astronave madre giunta da chissà dove. Da San Lodovico in bicicletta raggiungevo la scuola a Correggio, frequentavo le medie e come insegnante di matematica avevo una prof cadaverica che faticava a camminare, aveva il bastone e incuteva terrore. Per la festa di carnevale, visto che ero bravo a disegnare, mi venne chiesto di fare i ritratti di tutti gli insegnanti, erano ritratti satirici, sopra le righe e visto che a carnevale ogni scherzo vale, senza malizia o cattiveria pensai bene di raffigurare la Prof come un pirata con la gamba di legno. La scuola, preside compreso interpretò la caricatura come una mia cattiveria nei confronti del suo handicap ma a salvarmi da una punizione e a ridere del suo ritratto fu lei stessa. Da quel giorno la paura che mi invadeva quando entrava in classe iniziò a svanire e quella creatura severa e diafana divenne il catalizzatore che mi aprì una nuova porta di percezione extrasensoriale. Sinceramente non ricordo bene il motivo del dono, probabilmente per contraccambiare l’omaggio di una bella punta di parmigiano da parte dei miei, ma negli ultimi giorni direttamente dalle sue mani scheletriche mi venne consegnato il libro “Ombre sulle Stelle” di Peter Kolosimo. Dopo il Comandante Straker sbarcava nel mio spazio mentale un’altra entità scatenante, Kolosimo, colui che teorizzava nuove discipline, nuovi approcci e riletture: fantarcheologia, paleoufologia, occultura, paleoastronautica. Il nostro pianeta era già stato visitato da altre intelligenze, nelle vestigia di civiltà scomparse i segni della presenza degli extraterrestri, forse la colonizzazione, forse generazioni in viaggio per anni luce provenienti da altri mondi e qui approdati. Libri venduti come best sellers dell’inspiegabile, riviste sui misteri, forchette piegate con la forza del pensiero, psicotronica e su tutto e ovunque gli UFO. Oggetti non identificati nei dipinti della storia dell’arte, sulle linee di Nazca, sulle piramidi egizie, maya, mesopotamiche. Dalla paleoufologia arrivare a coniare la fantacasearia è stato semplice, vecchi caseifici esagonali per attirare la venuta di forme viventi provenienti da altri mondi, mucche scottone coinvolte in alien abduction e tutta una serie di specie allogene che al loro primo incontro creavano lo stesso sconcerto dei marziani. Ricordo la prima volta che si sparse la voce di un animale mostruoso avvistato nei pressi del naviglio Vdagna, descritto come un essere mutante, una chimera, un esperimento genetico fuggito dalla wunderkammer di una austera villa di Via Carletti. Mi venne in mente la creatura anfibia delle leggende del Po, era soltanto una nutria, una delle prime che cercava un adattamento, una naturalizzazione in un ecosistema sconosciuto e come per ogni cosa sconosciuta l’uomo intervenne per una seconda volta, dopo l’introduzione per sua stessa colpa, uccidendola. A questo episodio ho dedicato un ennesima canzone, una delle tante che parlano di creature paurose e invasioni che non sono progetti di dominazione sugli uomini ma pasticci e incidenti causati da una specie sempre indaffarata, in movimento, impattante, intestardita a sfruttare ogni risorsa del globo terracqueo.
Ecco ora stiamo guardando agli altri pianeti più vicini per capire se potremo approdare come turisti privilegiati e successivamente come coloni disposti ad abitare sotto cupole pressurizzate pronti a terraformare gli aridi suoli , a estrarre ogni ricchezza possibile, anche se il desiderio principale rimane quello di ritrovare archeologie non terrestri. La distopia qui da noi è arrivata prima delle pandemie, delle guerre, della crisi climatica perché il nostro gigantismo, l’efficientismo, lo sviluppismo ci ha già consegnato un luogo esausto. Le nostre archeologie spaziali sono quelle delle architetture dei locali da ballo con design cosmico e persino i night club per incontri con bellezze venusiane hanno nomi stellari, orbitali, siderali. Le rovine delle zone industriali dismesse sono come il relitto e lo scheletro dell’astronave di Giger. I razzi svettanti verso la ionosfera sono le ciminiere dei rigassificatori, i nostri velivoli sono i dischi volanti dei luna park, le nostre teorie speculative riguardano la Motorvalley, il nostro incubo hauntologico è quello di fare la fine dei maiali negli allevamenti intensivi dove siamo noi stipati e nudi in batteria pronti per essere macellati e spediti in pasto a qualche società aliena carnivora, le nostre odissee nello spazio profondo sono tutte interiori, sono saghe di fantacoscienza dove il cosmo è il nostro subconscio, dove la grande pianura senziente e ipnotica ci trascina alla deriva.
A UFO
di Davide Bregola
Adesso in Italia uno che ci dà dentro con gli UFO è Mauro Biglino. Biglino nei suoi libri parla di Antico Testamento, Dio, Dei e in alcuni testi parla di alieni che hanno dato vita all’umanità e gli hanno inserito nella testa il codice del linguaggio e un’intelligenza. I suoi libri sono piccoli bestseller pubblicati per case editrici di “spiritualità”. Anche Mondadori pubblica Biglino, le sue argomentazioni, le sue tesi in merito all’interpretazione biblica, agli alieni e a tutto l’ambaradan riconducibile a mistero, eventi inspiegabili, Gesù alieno ed ebraismo riletti in chiave esoterica. Biglino. Biglino ha seguito in convegni e ha centinaia di migliaia di visualizzazioni su Youtube, per dire. Per il resto, oltre a Biglino, anche l’ufologia come l’egittologia e altri temi in auge qualche decennio fa, oggi affascinano meno persone, hanno meno seguaci di un tempo sono, come si direbbe oggi, off topic. Per cui, dal mio punto di vista, interessantissimi! Anche solo alle Superiori abbiamo avuto tutti qualche compagno di scuola sbalestrato che aveva visto astronavi ed oggetti non identificati. A scuola da me, in seconda superiore, c’era un tipo di Santa Maria Maddalena (Ro) che sembrava sempre allucinato perché aveva visioni di ufo e navicelle spaziali. Faceva parte di un gruppo astronomico le cui caratteristiche principali erano quelle di sondare il cielo alla ricerca di vita nell’universo. Provava sempre a portare l’argomento UFO durante l’ora di Religione, con Don Micro, ma quest’ultimo lo dissuadeva stizzito e gli dava risposte superficiali. Una volta il tipo allucinato accolse in classe Don Micro (che chiamavamo così perché era alto 1 metro e 52 centimetri) calandosi le braghe per fare vedere il culo al parroco. Quest’ultimo si mise le mani agli occhi e il tipo si sedette sulla cattedra col culo di fuori. Urlò “Gesù-Ge giù-Ge più” e quella fu l’ultima volta che lo vedemmo in classe. I professori, successivamente, ci dissero che si era ritirato da scuola. Erano gli anni della serie tv “Visitors”, dove delle specie di lugaroni verdi e schifiltosi mangiavano ratti di fogna, erano gli anni di presentatori della domenica pomeriggio che parlavano con “scienziati seri” di navicelle spaziali, atterraggio di extraterrestri e così via. Era di moda ET con tutti i gadget possibili e immaginabili, e io che studiavo a Ferrara vedevo che trattavano Rambaldi, il creatore di ET che abitava a Vigarano Mainarda, come una specie di genio. Mi sa che una volta Rambaldi l’ho pure visto in giro per Ferrara, ma ho un vago ricordo. Spielberg pochi anni prima ci aveva provato con “Incontri ravvicinati del III° tipo” e Vasco Rossi suggestionato dalla pellicola cantava:
“E centomila occhi si voltarono
A guardare il cielo
Con un sospiro leggero,
Da quella parte sì, è da quella parte che
Sarebbero venuti loro
L'aveva detto il vecchio pazzo
Che abitava il monte
Nessuno aveva dubitato
Delle sue parole
Avevano bisogno di loro
Sarebbero venuti in volo.”
A me l’unica cosa che interessava degli Ufo erano le forme ovoidali delle strutture in cemento degli acquedotti comunali. In che senso? Certi giorni, passando con un certo sguardo, per una certa prospettiva che tagliava tutta la parte verticale che partiva da terra, si poteva scorgere solo la forma vagamente ellittica dell’acquedotto. Non ci voleva una gran fantasia nel vedere la navicella spaziale sospesa a mezza via tra un campanile, i pioppi, e i camini di qualche industria locale. L’acquedotto era diretto su Marte. Noi con lui. Poi c’era Mino D’Amato, con la sua pacata sicurezza, che quando meno te l’aspettavi ti faceva vedere foto in bianco e nero di “oggetti” provenienti da altre civiltà e alieni morti su tavoli di sala operatoria. Tutto arrivava sempre dagli Stati Uniti. Ma ben presto anche da noi qualcuno iniziava a scorgere navicelle spaziali. Hollywood lavorava a creare un immaginario collettivo occidentale fatto di Aree 51, cieli popolati da luci schizzate, testimoni di rapimenti alieni e così via. Gli americani…la loro industria dell’immaginario…
Ci doveva essere qualcosa di interessante, nel prendere la testa della gente e occupare lo spazio dell’immaginazione con Ufo, alieni, dischi volanti, apparizioni. Sennò non si spiega. Poi c’era stato Jung col suo Un mito moderno. Gli oggetti che appaiono in cielo, libro che indaga come si forma un mito attraverso l’archetipo del “rotundum” -la forma ovoidale delle navicelle spaziali- e della percezione visiva con tutto il carico simbolico che questo comporta. Gli ufo rappresentano il simbolo di un principio superiore all’uomo? Sono allucinazioni collettive? Quali erano, e sono, le implicazioni psichiche della presenza fittizia o reale degli ufo? Jung non era lì a indagare se esistessero o meno gli alieni. Voleva capire come si forma un mithos, cioè un racconto, in senso etimologico, per il tramite di visioni vere o procurate da suggestioni collettive. Poi, per farla breve, c’è un modo di dire che è “a ufo”. Molti di voi non l’avranno mai sentito. Per esempio si dice: “Mangiare a ufo”, “Vivere a ufo”, che non ha nulla a che fare con l’acronimo Unidentified Flying Object, ma con AUF, ossia Ad Usum Fabricae. Per le opere architettoniche importanti non erano applicati dazi di alcun tipo. Sul materiale per costruire c’era scritto o scolpito l’acronimo AUFO, cioè ad uso della fabbricazione dell’opera. Ben presto “a ufo” divenne sinonimo di gratuità, proprio come il materiale esente da tasse che serviva per costruire duomi e costruzioni civili di notevole entità. Ecco che “a ufo”, di probabile origine toscana, diventa un modo di dire per descrivere qualcuno che vive a sbafo. Ho chiesto ai ragazzi di Terza superiore del liceo della città in cui vivo cosa ne pensassero degli Ufo. Nessuno era particolarmente entusiasta della questione. Il tema, più che altro, era riconducibile a due videogiochi come UFO: Alien Invasion e Find the alien, ma tutto il fascino retrofuturista di certe generazioni, in loro sembra non esserci. Più che altro hanno sviato il discorso parlando di quello che seguono loro on-line. Non sono dischi volanti, apparizioni di Ufo nei cieli o extraterrestri spappolati in esperimenti scientifici ma, per esempio, tutta la vicenda del Mostro di Firenze e di Pacciani. La conoscono bene perché sui social stralci di processo vengono ancora trasmessi. Uno di questi ragazzi mi ha persino citato a memoria la poesia che Pacciani declamò in tribunale al giudice: “Se ni’ mondo esistesse un po’ di bene e ognun si considerasse suo fratello, ci sarebbe meno pensieri e meno pene e il mondo ne sarebbe assai più bello.” Tra loro va forte anche il giornalista Germano Mosconi che parla, con voce suadente e bestemmioni, di sport e notizie locali. Un altro che va fortissimo, tra una lezione di Storia dell’arte e una di Greco, è “Andrea Dipré per il sociale” coi suoi grandi artisti. Piace un po’ meno ora che, da una città dell’Est Europa, lancia strali e vuole disintossicarsi dalla cocaina. Rimane memorabile il suo dialogo con Achille Bonito Oliva in una trasmissione di Camurri. Ovviamente, mi dicono i ragazzi, guardano questi personaggi con un certo tipo di occhio, col senso di chi vede fino a che punto può arrivare qualcun altro per farsi vedere e avere followers, avere seguito, fare scalpore, essere visibile. Oppure, come nel caso di Mosconi e Pacciani, entrambi morti, i ragazzi guardano e ascoltano i personaggi, le loro scempiaggini, la loro mediocrità, per divertimento. Forse serve per alleviare impulsi, per provare un po’ di pena, per conoscere i freak. Ma poi basta. Nessuna critica. Nessuna morale. E allora viene da pensare che gli Ufo, per questi ragazzi, sono loro, i fenomeni da baraccone di questo XXI° secolo, di questi frantumi di pudore che atterrano sui portali e lasciano tracce aliene. In qualche modo gli ufo stanno lì dentro a una memoria digitale. Non sono veri, non ci sono più. Sono veri, ci sono ancora. Atterrano quando pare a noi e li controlliamo. Veniamo controllati. Tutto in un rotundum a ufo. Perché se si deve fantasticare, e si è persa la forza di immaginare, questo è ciò che passa la nostra enorme società dei Balocchi.
GLI UFO A BORETTO
di Stefano Domenichini
Nel corso di una vita normale non è sistematico, ma nel caso vi dovesse capitare di passare da Boretto, sappiate che a Boretto quando vedono un messicano, si mettono a ridere.
La colpa, se vogliamo usare questa categoria così piena di sbarre e sangue, è di un certo Pigozzi.
Pigozzi di nome fa Putifarre. Il padre lo chiamò così perché gli era sembrata un’esclamazione consentita a chI, come lui, era devoto di San Rocco e si inalberava per l’intercalare blasfemo che arricchiva il gergo dei borrettesi, rimbalzando sull’Argine Maestro in una cacofonia continua e quasi domestica. Ma al quinto figlio da sfamare, si sentì di imprecare. E Putifarre fu. Per poco. Fin dalle elementari, Pigozzi diventò per tutti Sputo.
Il fatto fu che il Maestro Zecchin manifestò in quegli anni una fastidiosa allergia alle cipolle, di cui era avido consumatore, che gli causò un ingrossamento della lingua e un irrigidimento dei muscoli della bocca. Tanto bastava a rendergli arduo il compito di pronunciare alcune parole senza emettere un percepibile flusso di saliva. Putifarre era tra le parole che lo mettevano più a dura prova.
Vorremmo adesso, qui, raccontare di come il Maestro Zecchin, originario di Polesella, arrivò a Boretto, di come lui, irriducibile membro dell’Azione Cattolica, si innamorò follemente, complice una festa di nozze sulla Motonave Stradivari, di Anita Spaggiari, inveterata comunista, di come lei, ogni volta che lo abbracciava e lo teneva stretto come un pezzo di sé, gli sussurrava all’orecchio: «quelli come te dovevamo ammazzarli tutti», vorremmo dirvi tutto di questa storia d’amore, ma non si può. Dovremmo eludere la vera domanda da cui siamo partiti: perché a Boretto ridono quando vedono un messicano.
Putifarre Pigozzi, divenuto grande, si asservì a una vita che, lì per lì, gli era sembrata indispensabile: un lavoro che boh, mi pagano, non tanto, ma mi pagano, una moglie che boh, bisogna pur sposarsi no?
Ora, voi direte, ce n’è tanti come Pigozzi e tanti ce ne sono che , invece di darsi due sberle e capire cosa non ha funzionato, preferiscono fare finta di niente e sfogano l’inevitabile frustrazione in ambiti meno privati.
Nascono così i complottisti. Pigozzi, anima non priva di una certa visione e nobiltà, si buttò a capofitto nella più romantica delle teorie: gli U.F.O. e i loro avvistamenti.
Cominciò ad ammorbare i compaesani con tesi, ipotesi e supposizioni ogni volta più concrete su alieni che avevano fatto visita a fortunati ominidi di Rosswell, di Lubcock o dell’Antartide. Ma quando i frequentatori del Bar di Piazza San Marco gli chiedevano le prove, gli toccava ammettere che, porca miseria, quegli ominidi si erano scordati la macchina fotografica, oppure il rullino, o, sfiga delle sfighe, l’otturatore si era inceppato.
Fino a che arrivarono loro: i messicani.
Nella primavera del 2004, l’Aereonautica del Messico («mia di ciocapiât come vuèter», diceva Pigozzi agli astanti) convocò in pompa magna una conferenza stampa mondiale per dire che basta, stavolta c’era un video di nitidezza neorealista che mostrava undici U.F.O. in volo sopra un posto chiamato Ciudad del Carmen, Stato di Copeche (a Pigozzi piacevano un sacco i dettagli geografici).
A filmarli erano stati tre ufficiali dell’esercito («mia di frutarôl come vuèter» apostrofava Pigozzi i sempre più attoniti astanti): Magdaleno Castaňós Mùňez, Mario Adriàn Vasquez e Germàn Marìn Ramirez (nomi che già di per sé echeggiavano un centrocampo da Coppa America) i quali stavano dando la caccia a dei narcotrafficanti, ma preferirono abbandonare quella attività routinaria per dare il loro contributo alla Storia.
In quattro e quattr’otto al Bar di Piazza San Marco l’autorevolezza di Pigozzi ebbe un’impennata che lo portò alle soglie dell’immortalità: chi lo voleva Sindaco, chi lo voleva proporre per il Nobel, e nessuno che lo chiamava più Sputo.
Va detto che Pigozzi visse quel momento con altera modestia, dispensando gratuiti vaticini e approfittando per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Tipo aizzare la popolazione contro Martino Bartoloni, uno che, non aveva mai capito perché, gli era sempre stato profondamente sui maroni.
Bartoloni aveva fatto i soldi producendo carta carbone e poi si era riciclato nel settore immobiliare. Si era costruito una villa faraonica con un parco pieno di statue e fontane, una cosetta sobria che copriva da sola due circoscrizioni elettorali del Comune.
Pigozzi, forte della credibilità smisurata di quel momento, convinse i borrettesi che sotto la proprietà di Bartoloni vi fosse una base sotterranea di venticinque piani. Bartoloni si era tenuto il primo dove organizzava feste sfrenate con ragazze molto giovani, dando sfogo alla sua ben nota lussuria («se avessi delle figlie, le terrei lontane da lì», ammoniva il Sommo Pigozzi).
Gli altri ventiquattro piani erano appannaggio della Nasa e del Governo americano, che aveva finanziato il tutto, e servivano a sviluppare tecnologie e armi avanzatissime con la diretta consulenza degli alieni, in particolare Rettiliani, che visitavano spesso Villa Bartoloni.
Il paese insorse. Persino Anita Spaggiari, vedova del Maestro Zecchin, ormai irreparabilmente invecchiata, tornò in piazza, che al solo sentire la parola americani le saliva una tempesta ormonale di entità puberale.
A nessuno venne in mente di chiedersi come mai la Nasa , per flirtare con i Rettiliani, avesse scelto proprio Boretto, tale era la rabbia verso Bartoloni che aveva tenuto nascosta una faccenda che avrebbe potuto portare ricchezza e fama al paese.
Bartoloni, messo alle corse, sparì nel nulla.
Tornò, tutto abbronzato, qualche tempo dopo. Parcheggiò la Mercedes a ridosso dei tavolini del Bar di Piazza San Marco e scese con un fascio di giornali sotto il braccio.
Si sa che le notizie vanno in mondovisione, mentre le smentite hanno un trafiletto nella pagina del giardinaggio. Bartoloni sciorinò i principali giornali messicani che contenevano una contrita dichiarazione rilasciata dal più sfigato ufficiale dell’Aereonautica messicana. Il famoso volo dei tre eroi era stato ripetuto più volte in presenza di scienziati e ufologi di fama internazionale. In tutti i video girati comparivano sempre le stesse scie di luce che avevano portato Pigozzi alle soglie della santità. I tre detective dell’aria, di cui peraltro nessuno seppe più nulla, avevano filmato le fiamme di una piattaforma petrolifera.
Bartoloni non si sedette neanche, fece dietrofront verso la Mercedes coloro oro. Quando fu sulla soglia, si girò lentamente e disse: «Comunque il Messico è bello, c’è pieno di figa».
Al Bar di Piazza San Marco si registrarono otto minuti e diciassette secondi di silenzio assoluto prima che iniziasse un boato di improperi verso Pigozzi e di risate verso i messicani.
Rimase solo un’ombra sulla vicenda. La smentita faceva riferimento a dieci scie luminose, ma nulla si diceva dell’undicesima, con riguardo alla quale venne dichiarato il Segreto di Stato. Solo molti anni dopo un giornalista intraprendente riuscì a entrare in possesso del documento secretato. Era un messaggio dei narcotrafficanti che testualmente diceva: «Quello era il nostro camion, coglioni».
LA STORIA DELLE SORELLE ANASTASI
di Jacopo Masini
Le sorelle Anastasi sono passate alla storia per il rapimento del 1954. Abitavano all’epoca in un paese dell’entroterra emiliano, in cui erano emigrate subito dopo la guerra insieme al padre carpentiere, Tito Anastasi, e alla madre Gemma.
All’epoca avevano otto e dieci anni e frequentavano l’istituto delle Suore Brodoline, noto in paese per l’impeccabile disciplina impartita alle piccole e per la ferrea didattica, basata sul motto di San Brodolino: Meglio una pastina oggi che un calcio in culo domani.
Mimma e Carmela Anastasi si erano distinte da subito per la meticolosa cura con cui scuoiavano le lucertole, ricavandone preziosi brandelli di pelle che riutilizzavano per foderare quaderni, astucci, banchi delle compagne e a volte intere bambine, che rientravano a casa con sembianze rettili. L’operazione veniva in genere compiuta con una tale rapidità da impedire alle sorelle Brodoline di poter intervenire e cogliere sul fatto le piccole Anastasi, che avevano nel frattempo imparato a otturare i gabinetti con la gomma pane, a dar fuoco all’acqua piovana e a mimetizzarsi col minestrone fino a rendersi invisibili.
Il fattaccio accade il 23 ottobre del 1954.
Era una notte umida e silenziosa, su cui era calata una leggera nebbiolina autunnale che cancellava l’orizzonte della pianura alla vista dei paesani. Qualcuno ricorda che all’improvviso apparve in mezzo al cielo una striscia luminosa obliqua, una specie di fiammata carnevalesca, che subito si spense nei paraggi della fattoria dei Bocchi, la cui proprietà confinava con la piccola casetta degli Anastasi. Le mucche iniziarono a muggire, i maiali grufolare, le mamme a mammare e alcuni uomini, indossato il tabarro, si mossero in direzione del presunto punto di impatto.
Giunti sul posto videro un ammasso di ferraglie fumanti, del colore del mercurio liquido, da cui spuntavano due figure altissime e irriconoscibili. Una agitava una specie di mano palmata, sembrava chiedere aiuto, l’altra giaceva immobile. Alcuni, raccontano in paese, fecero per avvicinarsi, quando dalla boscaglia spuntarono due figure piccole e rapidissime, “della consistenza del minestrone” disse il vecchio Cariola, che si avvicinarono ai rottami e fecero sparire i corpi superstiti.
La mattina seguente i carabinieri del paese andarono sul posto a fare rilievi.
Nessuno sapeva spiegare la provenienza dell’oggetto distrutto: non somigliava a un velivolo, non sembrava un carro armato e neanche il trattore nuovo fiammante della famiglia Bonelli. Giunse la sera e, con la sera, la notizia che le piccole Anastasi erano sparite.
In paese si diffuse il panico. Andarono a cercarle nei fossi, nei gabinetti dell’istituto, nei pozzi, anche in collina, ma niente, erano scomparse. La famiglia si disperò e i carabinieri pensarono subito ci fosse un nesso con l’incidente della sera precedente.
La mattina del terzo giorno le Anastasi riapparvero: indossavano un elmetto pieno di luci e transistor, lunghi guanti argentati e parlavano una lingua sconosciuta.
“Signore mio” disse la madre vedendole, “cos’è accaduto alle mie figlie?” e corse loro incontro, venendo respinta da una specie di forza che faceva da muro a una distanza di circa due metri dalle bambine.
Il padre provò ad avvinarsi a sua volta, ma ottenne lo stesso risultato.
Tentarono in seguito Gino Gabelli in bicicletta, i carabinieri a cavallo, il macellaio col furgone, ma tutti vennero respinti.
Per farla breve, le sorelle Anastasi continuarono a frequentare l’istituto delle Suore Brodoline e la vita riprese: le bambine venivano trattate con riguardo. Sedute in ultima fila, parlavano solo tra loro utilizzando quella lingua incomprensibile che avevano ereditato e nell’intervallo cercavano di investire le compagne con l’onda d’urto del loro campo magnetico. Le suore tentavano di rabbonirle, con l’unico risultato di ritrovarsi coperte da capo a piedi di una melassa verdastra e puzzolente molto peggio di un calcio in culo.
Per farla breve, dopo un paio di mesi, riapparvero d’improvviso le sorelle Anastasi. Tutti capirono che a scuola c’erano andati due alieni che vennero cacciati dai carabinieri e non si sa bene dove siano finiti.
Le bambine dissero di non ricordare nulla. Alcuni ancora dubitano che si tratti davvero di loro, pensano ci sia stato uno scambio di persona e che, in realtà, siano loro gli alieni. Ma non c’è la controprova. Sebbene il fatto che Mimma e Carmela si cibino da allora solo di viti e bulloni possa indurre a pensare che qualcosa di strano ci sia davvero.
DOMANDE A CHAT GPT
ALIENI #2
Bene. Sono seduto sulla solita panca delle sei e mezza. Mi sto gustando la mia birra preferita. Come al solito. Annessa alle paglie. Come sempre. Ovviamente ho le cuffie nelle orecchie con la mia musica preferita. Contemplo la birra. È sempre lei. La birra alla spina del locale. Tedesca. Di Monaco. Sono abbastanza tranquillo. Beh, mi sto rilassando. Dopo una dura giornata di lavoro. Mi sembra meritato. Guardo le officine ancora operose. Con gente indaffarata, al di là della strada. E, io, non sto facendo un cazzo. Beh: sto bevendo, fumando e ascoltando musica. Tre cose, già. Non sono poche. Farle assieme. Ah, ah... Sento un rumore tremendo. Un boato incredibile. È una bella giornata. Guardo su e vedo nel cielo una scia bianca con un puntino davanti. Si avvicina. Si avvicina incredibilmente. Distinguo una forma arrotondata. Che si ingrandisce a poco a poco. Che cazzo è? Mi chiedo. È chiaro che sta per venire giù. Il cielo si inonda di rumore e fumo bianco. E atterrano. In mezzo alla strada. Di fronte a me. Tutti che siamo fermi. A guardare. Guardiamo bene e non è niente che abbia a che fare con ciò che vola nei nostri cieli quotidianamente. Sarà mica un UFO. Proprio qui a Carpi? Ne abbiamo già abbastanza di rogne senza gli UFO. Cazzo, penso, è proprio un UFO. Sembra un panino. Un hamburger. Volante. Si è proprio appoggiato in mezzo alla strada. Di fronte a me. Si apre una porta nel panino. E scendono. Sono in due. Una è una femmina. Ha due tette gigantesche. L'altro è un maschio. Non ha le tette. Da quello lo capisco. Ho una certa perspicacia. Si avviano verso di me, proprio. Ma che cazzo: non mi sono rotto abbastanza i coglioni, oggi, che ci mancavano anche gli UFO. Si fermano davanti a me. Incredibilmente sono fatti come noi. Mah. Il maschio si mette a parlare. Esce uno strano fischio. Io faccio la faccia di quello che non capisce un cazzo. Allora lui armeggia con la cintura e comincia a parlare in italiano. Ciao. Ciao. Benvenuti. Grazie. Vi potete sedere. Grazie, e si siedono. Mah. Con tutte quelle che mi potevano capitare... Proprio a me. Siamo qui per te. Per me? Si. Sei Alessandro, no? Si. Schiapparelli. Allora sei tu. Allora d'accordo: fatemi capire. Da dove venite? Da molto lontano. Appunto che è quello che mi chiedo è che sai chi sono. Come mai? Scrivi, no? Si, scrivo. Abbiamo letto quello che scrivi anche noi. E ci piace. Ah, sti cazzo di UFO che non si fanno i cazzi loro. Ma come ti chiami tu? Ugo. Che nome di merda. È il mio nome in italiano. E te? E mi rivolgo alla femmina. Ariel. Mi risponde. Ah, bel nome. Quindi, UFI, che cazzo volete da me? Una copia del tuo libro autografata. Così la portiamo da noi e la mostriamo a tutti. Testimonianza che siamo stati qua a parlare con te. Intanto, ovviamente, il mio sguardo cala sulle tette della UFA. Pardon: Ariel. Beh, ce li ho qua con me. A voi li regalo. Anche se sarebbero quattordici euro a copia. E tira fuori dalla tasca un biglietto da 50. Bastano? Si. Ti viene del resto ma non ho spicci. Fa lo stesso. Ah, vi piace la birra? Ce l'avete a casa vostra? Si ma qui sarà sicuramente più buona. Allora tre birre medie. Ariel, bevi anche tu, no? Si, grazie. Mi piace anche parecchio. Che simpatica questa Ariel. Sarà la birra che le ha fatto crescere così tanto le tette? Ci portano le birre e facciamo cin cin. Beviamo e cerco di parlare un po' con Ariel. Quanti anni hai? 128. Beh, non so come funzioni da voi ma mi sembravi un po' più giovane. Scusa, non ho fatto la trasformazione con i vostri. Sono 32 anni terrestri. Che bella età. Ce li avessi ancora io. Invece ce ne ho 52. Beh, li porti bene. Ringrazio. Non farmi un altro complimento se no ti chiedo il numero di telefono. Beh, te lo do volentieri. Ma quanto mi costa telefonarti? No, non costa niente telefonare ai numeri spaziali. Infatti è un numero di 18 cifre. Lo memorizzo. Bene, Ariel, quando mi dai il primo appuntamento? Facciamo stasera? Ah, è perfetto. Andiamo a cena al ristornate cinese qui di fianco? Ti piace? Mi piace più lo spaziale ma va bene lo stesso. Mi devo prima cambiare, però. No, dai, che vai bene così. Ha i capelli lunghi e la tuta con la cerniera davanti. Che si ferma a metà esibendo una generosa scollatura. Beh, giusto così. È così che deve essere. E, io, me ne vado? Chiede Ugo, estromesso dalla discussione. Si, fa lei. Allora si alza e si avvia, non senza aver finito l'ultimo sorso. Riparte col disco-hamburger facendo un gran casino. E mi lascia con Ariel. Bene, Ariel, beviamo un'altra birra? Si, certo. È molto buona. Mica quella che abbiamo noi nello spazio. E, poi, l'avevamo finita, purtroppo, a bordo. Va bene, beviamoci questa birra. E festeggiamo che sono con te.
Grazie. Grazie a te, mia bella UFA. Vi piacciono le tette, a voi terrestri, vero? E si eh? Beh più che a noi spaziali. Si, a me piacciono molto. Ah, complimenti per il tuo seno. Grazie, non me lo dice mai nessuno. Io sono un terrestre osservatore. Non mi scappa niente. Ah, ah... E ridiamo. Continuiamo a bere finche siamo sbronzi che viene l'ora di andare a cena. Del resto non vi dico più niente. La storia è finita. Ciao!
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