IL FILO E IL FIUME
di Paolo Simonazzi
PO 2.0
di Pastoraccia
GAZZETTA DEL PO
di Carlo Moretti
COSE SENTITE A PO
di Davide Bregola
E’ inutile fotografarlo e scrivere quelle cose come se il Po fosse un grande saggio che ti insegna qualcosa. E’ inutile, davvero. Il Po non è per niente un saggio, è un ammasso d’acqua con tranelli e trappole ed è già tanto se in una “buca” riesci a scampare e a portare a casa il culo. Ecco cosa impari: a portare a casa il culo sano e salvo se malauguratamente becchi un mulinello mentre nuoti. Anche quando ci sono quei tramonti instagrammabili non è un grande saggio placido e tranquillo. Ha più le sembianze di un giovane squinternato e irrisolto. Qualcosa di imprevedibile e poco social. Una massa di spazzature e tronchi, acqua e melma, che va sempre verso oriente.
Ho sentito dire che il Po era talmente esteso, fino al 17° Secolo, che arrivava alla soglia delle campagne di Mirandola. Per più di 20 chilometri, tra acquitrini, corsi d’acqua, pozze, proseguiva e si estendeva. Poi l’uomo ha cercato di domarlo tra argini, arginelli, banchine, idrovore, canali, sbarramenti, tubature, golene. Ora è stretto tra imponenti argini, a destra e a sinistra. Se ascolti puoi sentire picchi che bucano tronchi, fagiani in amore, bestemmie e latrati.
Un giorno d’estate ero là sul barcone galleggiante. C’era anche un signore, Aldo, che pescava e un altro di cui non conosco il nome, seduto, con le gambe sulla cancellata che immette al porticciolo per le barche. Guardava l’orizzonte, verso Ferrara, anche se da quel posto si poteva vedere solo il campanile di Ficarolo. Con la corrente è passata una scarpa, bianca, da tennis vicino a riva e si è incagliata tra le rocce e il pietrisco. L’abbiamo guardata tutti e tre senza troppa attenzione. L’abbiamo guardata così, come si guardano passare pesci a pelo d’acqua. Solo io ho detto: “Speriamo non passi il morto…”. Il tipo seduto invece ha detto: “Sto qui. Aspetto l’altra scarpa perché mi sa che sono del mio numero.”
Il filosofo Metrodoro di Scepsi afferma che il nome Po, in latino Padus, deriva dall’abbondanza di alberi di pino selvatico presenti alle sorgenti del fiume. Questi alberi in lingua gallica sono, infatti, chiamati padi. Ancora oggi, poi, in alcuni paesi europei, per lo più slavi, il Po è chiamato Pad.
Alcuni da Malcantone e Porcara, fino alla prima metà dello scorso secolo, arrivavano a Sermide in barca. Dieci chilometri buoni, da sud-est verso nord. Un signore mi ha detto che suo suocero da là arrivava remando, la domenica mattina, a messa in barca.
Le voci corrono sull’acqua e dalla riva, a volte. Si sentono voci lontane che arrivano dall’altra sponda o da chissà dove.
Il colore dell’acqua cambia e dal colore si può capire se sta entrando acqua dal Mincio, o dall’Oglio, dal Secchia o dal Panaro. La prima è azzurra, l’altra marrone, la terza verde e la quarta grigiastra.
Quando il Po è in secca inizia a entrare acqua salata dall’Adriatico e qualche politico sta già parlando di installare dissalatori. “Come a Dubai” dicono. Come se Dubai fosse un luogo naturale e non un artificio dell’uomo. Un artificio totale. Anche il Po, in parte, è un artificio, ma ho sentito spesso arrivare qualcuno e dire: “Come si sta bene in mezzo alla natura!”
Da qualche anno a Po sono tornati lupi, cinghiali, caprioli. Questi ultimi arrivano galleggiando sul Secchia. Dall’Appennino modenese vengono spinti fuori dai territori collinari da capobranco che non li vogliono là. Anche la carestia li porta a muoversi. Lupi, cinghiali e caprioli, mentre in tv da settimane parlano dell’incoronazione di un re inglese.
Nel 2000 mi è capitato di vedere auto galleggiare tra le correnti della piena del Po. A Tabellano, nella golena, si è arenata una nave con coperta a vetrate. Sembra l’imbarcazione del film Fitzcarraldo di Herzog. E’ ancora lì dal 2000.
Una volta mi avevano raccontato della Borda, una specie di mostro orripilante, che afferra e trascina nelle acque i malcapitati che incontra sulla riva del Po.
A dispetto di quel che si può credere, sul fiume c’è sempre aria provocata dalla corrente del Po che va verso la foce e si immette nel mare. I vecchi frequentatori del Po, dalle parti tra Lombardia e Emilia, chiamano “garbìn” quell’aria che soffia da nord-ovest a est.
Le pagine del romanzo “La polvere sull’erba” (Einaudi), opera prima di Alberto Bevilacqua, ha un capitolo intitolato Il rito del toro e la Guerra Civile. La gente indemoniata doveva spargere il seme del toro per evitare che il Po esplodesse coprendo tutte le terre dei dintorni. Da pagina 27 a pagina 31 c’è una delle immagini più potenti della letteratura italiana del ‘900.
Quando sei a Po prima o poi nei discorsi salta sempre fuori Guareschi. Nel 1948 scriveva: “Dunque il Po comincia a Piacenza, e fa benissimo perché è l’unico fiume rispettabile che esiste in Italia: e i fiumi che si rispettano si sviluppano in pianura, perché l’acqua è roba fatta per rimanere in orizzontale, e soltanto quando è perfettamente orizzontale l’acqua conserva tutta la sua naturale dignità.”
Qualche giorno fa sono andato verso Adria per un impegno di lavoro. Passando per Crespino (Rovigo) ho visto un grande manifesto all’entrata del paese che diceva: “Crespino, il paese del mito di Fetonte”. Lo stemma del Comune ha proprio Fetonte, su un carro guidato da quattro cavalli imbizzarriti, che sta precipitando nel Po. La piazza della chiesa si chiama Piazza Fetonte.
Io sto sempre dalla parte degli antichi. Torquato Tasso nelle Rime scrive: Mentre sul lido estremo/a te con l’acque dolci e con l’amare/vien quinci il Po, quindi risuona il mare,/l’un riceve i tributi/l’altro li porta, e l’uno e l’altro a prova/a te li offre e rinnova/perché le valli e i boschi or non rifiuti./E quei sempre discende e mai non riede,/rivolgendosi a tergo/appresso il novo/albergo:/questi parte ritorna, e ’ncontra e cede,/e dà la terra e l’onda or doni or prede.
Per come la vedo io adesso, il Po è un lungo corso che pulsa per sottrazione e addizione. Sta per molto tempo nel suo alveo principale, il più profondo, il più irrorato, e poi si espande. Raramente dilaga. Quando lo fa, per gli uomini è una lotta continua. Domarlo un’ossessione. Domarlo ancora e ancora e, quasi volessero punirlo, lo umanizzano, lo antropomorfizzano e innalzano gli argini, creano delle idrovore sempre più potenti. Come se lo volessimo disinnescare da secoli. Come se lo volessimo prosciugare.
Un giorno andai con Mirella e la figlia della parrucchiera a fare merenda sul fiume. Andammo sotto un salice che aveva di fianco un tabernacolo con all’interno una madonna in gesso vestita di azzurro e bianco. Mirella raccontò che una donna incinta si era addormentata sul prato. Una biscia del Po le era entrata in bocca e lei non se n’era accorta. Quando nacque il bambino aveva la pelle liscia e argentata come la biscia. Avevo sette, forse otto anni, e quella storia mi aveva fatto molta paura. Ho ritrovato da adulto, ascoltando storie della tradizione, un animale della fantasia, la bosma. E’ un’enorme biscia palmata e terribile, dai grossi unghioni, che di notte cerca le donne con bimbi piccoli per succhiare il latte dal seno e fare patire la fame ai neonati fino alle estreme conseguenze.
Là sul Po, in zona Isola Schiavi, avevamo fatto il nostro quartier generale e l’avevamo chiamato Tequila Beach. A Tequila venivano gli ubriaconi, i drogati, i nullafacenti, ma c’eravamo anche noi giovani studenti delle scuole superiori affascinati da quel mondo a parte, dai tossici, dagli scansafatiche, dai genii dissipati, dalla gente rovinata. C’era Campo, un vecchio disoccupato che dopo una bottiglia di lambrusco iniziava con le sue massime. Una di queste era: “Indi onde per cui ssanta culati ié trenta cui”, tradotto è molto semplice: “Quindi, sessanta natiche sono la somma di trenta sederi.” Cose del genere, ma a dire il vero si toccavano anche argomenti più profondi. Li chiamavamo “paranoie”. Io e pochi altri eravamo i campioni delle “paranoie” ma dentro di me quella era filosofia, metafisica. Il Po fino agli anni Zero era metafisico. Ora è diventato patologico e così dalla filosofia, il linguaggio ha iniziato a rivolgersi alla scienza medica.
Ieri a Mantova, in via XX Settembre ho visto Dino. Mi fermo spesso a parlare con lui, quando ci incrociamo sul marciapiede, perché ogni volta mi parla del Po. Ha detto che a 5 anni attraversava già a nuoto il fiume da sponda a sponda, là a Pieve di Coriano. Tra l’altro domenica è tornato con un amico nella casa dov’era nato e ha detto di aver pianto nel vederla crollata. “Un giorno” mi fa “sono andato da mio padre, campione di nuoto, e gli ho detto che sapevo nuotare a Po.” Allora suo padre l’ha invitato, assieme al fratello di 2 anni più grande, a salire in barca per portarli nel centro del fiume. “A sì, a saui nudàr? Alora andèm, fèm vedar…” Quello che era con loro non era il suo vero fratello, ma era figlio della sorella morta di suo padre. Avevano deciso di tenerlo in famiglia con loro ed era diventato a tutti gli effetti un fratello. “Là in mezzo al Po c’era l’isola di Cirene, che adesso è scomparsa”, dice, “ e arrivati vicino, nostro padre ci dice di svestirci e ci spinge giù!” Iniziano a nuotare solerti, il padre aspetta si allontanino di qualche metro mentre placido rema nella loro direzione. “Noi cerchiamo di andare veloci, quasi contenti nel fargli vedere come abbiamo imparato bene, da soli, a rimanere dritti, a nuotare verso riva, senza farci trascinare lontano con la corrente…” A riva si attaccano a qualche canna palustre, si mettono in piedi, gocciolanti, e ridono. Il padre attracca la barca, con calma la lega a un palo piantato apposta per tenere ferme le barche. “Al sà guardà in d’iòc, catif. E poi ce ne ha date, che ce ne ha date, che non smetteva più.” “Adès a imparé a andàr a Po sensa cal sapia mì! Gli diceva mentre picchiava sulla testa, sulle spalle, dove capitava. Calci e pugni. Il padre gli diceva che erano troppo giovani per domare l’acqua del Po. “Et capì putlet? Mio padre era un vero campione, a nuoto. Un bolide…”
Vorrei che il Po fosse dimenticato dai turisti in bicicletta. Cicloturismo, lo chiamano…Mi piacerebbe fosse privato di tutto il folclore che ci gira attorno. Vedere i tedeschi e gli austriaci che passano di qua senza sapere bene dove si trovano, dove andranno, mi infastidisce. Cercano i ristoranti e le trattorie segnalati su Tripadvisor e di solito le recensioni non hanno significato, sono un pacco. La gente viene qui per mangiare. Ma io non voglio vedere questi posti come fossero delle mense e i suoi abitanti cuochi e camerieri di cicloturisti stranieri. Vorrei che rifacessero la gara di motoscafi che c’era fino a qualche anno fa. Vorrei che i vecchi lo ripopolassero, il Po, che arrivassero a raccontare le storie dimenticate. Storie di guerra e pescatori. Vorrei che si smettesse di usare l’ombra degli olmi e dei pioppi, per fare la carne ai ferri il 25 aprile e il 1 maggio e poi basta. Vorrei lo lasciassero in pace per alcuni decenni, senza falciare, senza tagliare piante, senza mettere e togliere acqua attraverso bonifiche e pompe e autoclavi gigantesche. Lasciatelo stare, lasciatelo vivere e morire, smettetela con gli articoli di giornale o le riprese televisive dove si parla solo di quei soliti 100 metri arsi e marci. Vorrei la smettessero di guardarlo con quegli occhi compassionevoli e affranti. Il futuro è dei vecchi e dei bambini. Il futuro è del fiume, dei vecchi e dei bambini.
Uno dei fenomeni più suggestivi del Po sono i fontanazzi. Se fossi un esploratore e potesse esistere un mestiere del genere, farei l’esploratore di fontanazzi. Dove anche solo un attimo prima non c’era, improvvisamente emerge un gorgo dalla terra e inizia a zampillare acqua. Quando inizia a zampillare non sai quanta acqua getterà fuori. Potrebbe crearsi un bugno, oppure potrebbe finire tutto in una merdosa pozzanghera di fango e acqua puzzolente. Non lo sai. Il fontanazzo è uno sfiato naturale, un tacito accordo tra fiume e terra, un inferno sorgivo, una rottura di coglioni. Ne ho visti tanti, specialmente in campagna. La terra un po’ s’inarca e l’acqua emerge fino a creare dei piccoli laghi che poi asciugano, riassorbiti dal terreno. Invece una volta a Felonica, in una traversa di via Garibaldi, è sorto un fontanazzo tra le case. Un buco del diametro di una cinquantina di centimetri, che continuava a buttare fuori melma e acqua. L’ho guardato per molto tempo, perché è rimasto sul terreno per giorni. Usciva acqua cheta, usciva piano ma inesorabile. Poi com’è venuta fuori, così è sparito, il fontanazzo, e il buco è stato ricoperto da una carriolata di terra presa in un orto. Fine del fontanazzo.
I MURI SUL PO
di Jacopo Masini
A un certo punto mi sono accorto di aver vissuto per sei anni in riva al Po.
Me ne sono accorto a distanza di tempo, ripensandoci, perché vivere in riva al Po a Torino non è come vivere in riva al Po in Emilia, nella Bassa, oppure nel mantovano o nel cremonese, per non parlare del Delta, che è una terra sterminata, allagata, sparsa, vastissima, dove il Po si confonde col mare e col cielo ed è salmastro, mica come a Torino, dove il Po è un'altra cosa.
Il Po a Torino, per me, era la cascatella dopo ponte Vittorio Emanuele, quello tra piazza Vittorio e la Gran Madre, che sentivo scrosciare dal balcone di casa, di notte, quando mi affacciavo a fumare o a pensare ai fatti miei. Ma era soprattutto una lingua d’acqua increspata, di notte, quando uscivo o andavo ai Murazzi, da Gianca - cioè Giancarlo, che per tutti era Gianca, così come i Murazzi erano solo i Muri - al Beach, o al Dottor Sax, vedendo per anni decine e decine di albe gelide o tiepide, d’inverno e d’estate. Era quella lingua d’acqua in cui cadevano pisciando ubriachi altri come me usciti da Gianca alle 5 o alle 6.
Una volta ci è caduto anche un mio amico, che dopo quattro o cinque Sambuca si è alzato in piedi - stava parlando animatamente con un tizio appena conosciuto, che poi abbiamo scoperto essere uno appena uscito dalla galera per non so quale motivo -, si è sbilanciato, ha fatto perno su una gamba ruotando su se stesso ed è caduto nel Po, mentre io ero a pochi metri da lui, con una tipa che si era seduta accanto a me, mi chiedeva perché ero triste - ed ero triste perché avevo appena perso il cellulare e dovevo chiamare la mia fidanzata dell’epoca -, ho visto tutto con la coda dell’occhio, lei che mi diceva ‘Il tuo amico è caduto nel Po’ e io che dicevo ‘Lo stanno ripescando’ ed effettivamente era vero, quello appena uscito dalla galera lo stava ripescando mentre il mio amico gli urlava ‘Se hai le palle, adesso ti butti anche tu!’.
Ricordo una notte. All’uscita dal locale dove lavoravo in piazza Vittorio - il Café 21, quello dell’assenzio - ero andato da Gianca. Ero uscito come al solito verso le sei del mattino, e, prima di risalire la discesa dei Murazzi, mi ero seduto sui gradini in riva al Po.
L’acqua scorreva placida e la corrente disegnava su una parte della superficie piccole increspature simili a quelle di una veste. Il resto del fiume rimaneva piatto e in quella contraddizione, mentre le prime luci dell’alba risvegliavano la città, avevo visto il profilo di Torino: la calma del giorno, le increspature della notte. Un vento tiepido arrivava dal fiume. Ho preso il cellulare e ho scritto un messaggio a una ragazza che mi piaceva: ‘Cerco solo di seguire la corrente più calda’. Era la risposta a una cosa che mi aveva chiesto ore prima, arrivata ora, in quel momento, ai Muri, alle sei del mattino di un’altra notte lunghissima.
Era un bacio alcolico, un modo per dire un amore che non sapevo dire, un modo per nuotare dentro la musica a palla, il sonno che veniva sempre troppo tardi, la vita in quella città che scoprivo ogni giorno più grande. Era un altro modo per dire una cosa che i Subsonica hanno cantato in uno dei più bei versi della musica italiana, secondo me. È un verso di Eva-Eva, da Amorematico. Dice “Puoi chiamarlo nuotare, se ti spaventa, o forse amore”. Un verso che mi sembra accecante, vasto quanto il Po, il mare e tutta la fatica che si fa a rimanere a galla, quando ci spaventiamo.
Tutto si muoveva, non si riuscivo a stare fermo, esattamente come accade quando una nuova ossessione ci invade e prende possesso di noi. Tutto era mescolato nella stessa confusione, che non avevo colto perché non la conoscevo. Improvvisamente c’erano le strade della città, la complicità nel buio, i baci alcolici, tutti gli sbagli e ciò che mi avrebbe difeso e fatto male.
Il Po, per me, era quella roba là. È stato così per almeno sei anni vissuti là accanto a lui, che scorreva, ogni tanto si incazzava, rompeva gli argini e allagava i locali dei Murazzi.
Ma non ho mai pensato di vivere o aver vissuto in riva al Po, finché non sono tornato in Emilia, a Parma.
Il Po lo conoscevo già e quando da Torino tornavo a Parma e mi capitava di andare nella Bassa mi veniva da pensare che a Torino il Po era uno scherzo, in Emilia una cosa seria, anche se poi, l’anno scorso sono andato nel Delta e ho capito che anche in Emilia è uno scherzo. Il Po nel Delta si allarga come le dita di due mani, invade tutto, è il grande fiume che diventa mare.
Così mi capitava di tornare a Torino e fare il gradasso e dire ai miei amici torinesi che loro non sanno quanto è vasto il Po, largo, possente, maestoso e poetico. Ma erano sbruffonate da parmigiano e non avevo capito che io vivevo accanto al Po e il Po era la notte, la gente che ci cade dentro e a volte ci muore, certe malinconie feroci dopo lunghissime nottate piene di voglia di fare festa finché non svanisce tutto, magari anche io, per sempre.
Il Po, a pensarci dopo esserci vissuto accanto in una grande città, è una lingua infetta di droghe e liquami e scarichi industriali e sacchetti di plastica. Un anno avevano analizzato le acque del Po e avevano trovato tracce consistenti di cocaina provenienti dalle acque reflue. Tonnellate di pisciate strafatte confluivano nel Po, un lungo fiume sballato, stracotto di MDMA, bamba, acidi di ogni tipo e specie e inquinato irrimediabilmente, alla faccia di Pavese e dei torinesi che fino agli anni ‘50 ci facevano il bagno e ai canottieri che vogano uscendo dai loro imbarchini e circoli esclusivi.
Il Po era sempre lì accanto, lo è stato per sei anni, ma non era il grande fiume di Guareschi o quello del Delta di Celati. Era il Po delle serate elettroniche e alcoliche, del tizio che mi incontrava mentre andavo da Gianca e mi chiama Onnipresente, della titolare del Sax che mi chiamava il Sindaco, delle mie amiche e dei miei amici e delle loro liti furibonde per i motivi più stupidi, degli spacciatori maghrebini che facevano la spola tra i Muri e piazza Vittorio e a volte lanciavano dalla strada sopra i Muri bottiglie vuote di vetro sulla gente in coda davanti ai locali, il Po era non avere via di fuga, perché non si può scappare tuffandosi nel Po.
Il Po è una lingua infetta di droghe e liquami e scarichi industriali e sacchetti di plastica, ma rimane sempre bellissimo. E quando vado a Pomponesco, a Gramignazzo, a Cremona o da qualunque altra parte qui vicino e lo vedo, penso che non lo sa com’è lassù, dentro Torino, accanto ai Muri che non ci sono più. Che abbiamo perso anche questo, quelle notti dove tutto era possibile, perché ci piace che tutto diventi normale, moderato, placido, in secca.
Ed è per questo che il Po si sta ritirando e prosciugando, secondo me. Perché non c’è niente di più triste che essere un fiume da cartolina. Meglio ammalarsi. Meglio svanire.
GLI AMANTI SUL FIUME
di Alessandro Sanna
IL PO È UNA PROMESSA
di Marco Truzzi
Un giorno mi scrive Jacopo e mi dice “sai che facciamo un numero di Mollette sul Po? Se vuoi, puoi scriverci su qualcosa”. Mi dice anche che non ci sono particolari cose da tenere in considerazione, a parte, ovviamente, il Po.
Allora mi prendo qualche giorno, d’altra parte lui mi ha detto “anche dieci giorni”. È un periodo strano. A San Siro va in scena il ritorno di un quarto di finale di Champions su cui ho brutti pensieri. In sogno, vedo il ghigno di Joao Mario, che si fa beffe della “maledizione di Bela Guttmann”, mentre alza al cielo la “Coppa con le orecchie”.
Si dorme male, così.
Però, poi, tutto passa, come l’acqua di un fiume e come Barella che sbraccia e gesticola in campo, contro compagni e avversari, e fa gol, mulinando gli arti superiori come Paltrinieri in acqua.
Ma intanto la questione del Po è sempre lì, che scava dentro di me.
L’area di servizio Po Est non eroga carburante. Non lo fa da tempo immemore e questo è certamente un problema che affligge migliaia di automobilisti e viaggiatori, ogni giorno, anno dopo anno, gente che all’area di servizio Po Est ancora non sa che tanto, di lì a poco, rimarrà incolonnata fino almeno a Rovereto Sud e, intanto, non fa rifornimento e avanza inconsapevole sull’autobahn tondelliana, verso nord, verso Berlino, verso tutti quei quartieri periferici europei che hanno un diretto legame con Campogalliano. Almeno a stare a sentire Ferretti, quando Ferretti diceva queste cose. Adesso è cambiato. Cambiamo un po’ tutti, d’altra parte.
Sto menando il can per l’aia, lo so.
Sarebbe stato più semplice rispondere a Jacopo “guarda, il problema è che a me il Po sta sui maroni”. Perché il Po è quella linea d’acqua che, per il solo fatto che sei emiliano, che ti è stato dato in sorte di nascere, crescere, vivere qui, allora, eh, allora a un certo punto devi dire qualcosa sul Po.
Il fatto è che questa è una terra fatta di linee, lunghe, una sopra l’altra: la Linea Gotica ha determinato la nostra libertà, la via Emilia quella della nostra storia. E poi, però, c’è quel fiume, con quell’insopportabile scorrere lento della sua acqua limacciosa, con il ricordo di quell’episodio di Don Camillo, dove Don Camillo va a farci il bagno e gli fregano i vestiti e tutti lì intorno a dire “ah, quando si andava al Po a fare il bagno”, “ah, il mare dei reggiani!”, come se fosse stato ieri, come se ognuno di noi dovesse, per qualche ragione non chiara, ricordarlo. E con tutto quel suo costante, inesorabile, suprematista tema legato all’identità. Ecco. Diciamolo, non temiamo gli strali di quelli delle Ghiarole: il Po è il simbolo identitario di un’identità che però non esiste - quella Padana - e che pure sta lì, come una specie di ovosodo, che non va ne su ne giù e ti chiede di fare i conti con lei. Ci hanno provato in vari modi a darci questa identità - con i festival, con le ampolle, con il dio Po, con l’Eridano, con i galli, i celti, i longobardi - ma niente, il dubbio su che cosa abbiamo a che fare, noialtri teste quadre, non dico con piemontesi o con i veneti, ma financo con gente di Parma o di Modena, resta imperterrito e indifferente ai dogmi delle “tradizioni”. Penso che valga anche il contrario.
Riassunto delle tradizioni (elenco in via di aggiornamento).
La nebbia. Le zanzare. I pioppi. Ermanno Olmi. Quella volta all’anno che vai a mangiare il pesce a Boretto - ma non il pesce gatto, che sa di fango e di schifo e di escavazioni per la ghiaia, ma i calamari fritti, che c’entrano con il Po come Antonio Cassano con il Pallone d’Oro - e però ti ricordi che, invece, verso Guastalla, un tempo c’era la Trattoria Rina che non era male. Gianni Brera. Ma che c’entra Gianni Brera con il Po? Lui parlava dell’oltrepo. Va bene, dai, non stiamo a sottilizzare. Gianni Brera è ok. Gli scrittori che stanno a Milano o a Roma e che però sono originari di queste parti e parlano del Po come di un Danubio che ce l’ha fatta un po’ meno. I pittori naif. I circa 250 “Veri Re del Po” accreditati. L’apostrofo che rende il Po - il “grande fiume” - il po’, con tutte le incertezze e i dubbi che rappresentano l’attualità di questa terra arsa dal sole, maledetta dalla siccità, dove adesso si sta lì a guardare il livello basso del Po quando fino a pochi anni fa si controllavano più che altro le piene, che prima di risolversi dovevano passare per posti tremendi e misteriosi e tolkeniani, tipo Pontelagoscuro, tutto attaccato (“è passata la piena? Forse, ma aspettiamo, aspettiamo cosa ci diranno da Pontelagoscuro”).
Soprattutto, Paolo Rumiz.
Paolo Rumiz è l’emblema di quello che avrei sempre voluto fare io e invece lo ha fatto lui, ovviamente meglio di come avrei potuto farlo io. Un esempio? Nel 2012, Paolo Rumiz ha percorso - in barca, in canoa, a piedi - tutto il corso del Po. In quel periodo leggevo le sue puntate su Repubblica, in un’estate, dove Letizia, mia figlia, aveva tre o quattro mesi, e alla tv c’erano le Olimpiadi a Londra. Mentre noi cambiavamo pannolini, tenendo il fiato sospeso sulla questione Alex Schwarz/Carolina Kostner, Paolo Rumiz percorreva il Po e faceva e scriveva tutte quelle cose che ti aspetti da Paolo Rumiz, gli incontri interessanti e anche quelli che chi se ne frega, ma che in quell’ottica lì, in quel contesto lì, con quella penna lì, allora diventano fondanti, fondanti di un’epica di cui tu, che pure c’eri così vicino, però non ti eri mai accorto.
Che è poi la differenza che passa tra essere uno scrittore e uno scribacchino.
Penso che non sia un caso che sul Po, sulla corrente di tutta quell’acqua che scorre, su quei misteriosi mulinelli, sui siluri e sui pirati che lo abitano, si siano affermati scritture e scrittori. Perché sul Po c’è il mistero, c’è l’avventura, c’è l’epica. C’è soprattutto ciò che non c’è, ma che può essere raccontato come se ci fosse. Come le promesse. Il Po è una promessa.
Penso anche, però, che non sia nemmeno un caso che io abiti a 30 km di distanza da tutto questo e l’acqua del Po che vedo è più che altro quella che porta la Bonifica Parmigiana Moglia nei canali, in estate.
Fin che ce n’è, certo.
IL COLORE DELLE LACRIME DELLA GENTE DI PO
di Piermaria Leandro Romani
Queste opere fanno parte del lavoro (non in vendita) che prosegue dal 1991 intitolato PAESE REALE, che ad oggi consta di 1192 ritratti, 1183 25x 35+ 9 150x110, e altrettante interviste alla gente di Stienta, il mio paese sul Po dal lato Veneto, e a svariati ospiti, più o meno famosi. Nelle interviste le persone parlano dei loro giorni più belli, di quelli più brutti, di desideri e speranze, e la mia velleità vorrebbe che idealmente tutte queste voci rappresentassero qualcosa di universale, di ogni luogo e ogni tempo. I tentativi, gli esorcismi, le prove per convivere col caos. La serie delle lacrime è del 2016 e arriva per estenuazione, stanco di disegnare facce , ho pensato A una sinedocche, una parte per il tutto. Ho fatto piangere i miei compaesani facendo loro annusare estratto di senape, raccolta la lacrima su vetrino, spedito ad ingrandire la lacrima alla Sissa di Trieste trecentomila volte, e fatto scegliere il colore ad ogni singolo partecipante, essendo in natura le lacrime grigiastre.
L’OMONE
di Elisa Rovesta
È possente, scuro, deciso. E’ corpulento, una specie di Benicio del Toro, con lo stesso sguardo enigmatico e profondo. Si vede che non è più giovanissimo, ma non è invecchiato per colpa sua. Le cose della vita lo hanno reso più provato forse, mai debole. E anche quando è debole, sa come chiedere aiuto. Proprio come un vero uomo, sa farsi aiutare senza cadere nei patetismi. È stato così durante le alluvioni, ad esempio quella del 2000, quando poteva esplodere e fare danni ma ha saputo chiamare i rinforzi prima che accadesse. Da giovane si divertiva di più, incontrava tanta gente, addirittura alcuni paesi organizzavano vere gite per vederlo. Facevano il bagno tutti insieme, e oggi è ancora emozionante camminargli accanto. Qualche volta si incazza, e quando lo fa si scatena un rumore forte, e va via veloce, poi si calma, e il sole riesce sempre a farlo risplendere. Conosce parecchi dialetti, quello torinese ad esempio, e a proposto di Torino, come gli piacevano i Murazzi! Conosce il dialetto di Piacenza, della bassa mantovana… ma è con il dialetto rodigino che si diverte di più e quando passa in quelle zone ripete a tutti: “Buongiorno! An ghe briza!” Non sa cosa significhi ma dirlo lo fa sorridere. In tanti hanno parlato di lui. Di questa specie di omone. Hanno anche scritto tante canzoni, ad esempio Daniele Silvestri canta: “E’ per colpa di quel fiume se io sono ancora qua”. Ecco. Forse è per “colpa” di quel fiume se noi siamo ancora qua. O a tratti siamo questi qua. Il Po.
BIBLIOGRAFIE IMMAGINARIE DEL FIUME
di Igor Ebuli Poletti
ROBBABUONACHECIPIACE
LEGGETE BENGALA!
ISCRIVETEVI A BENGALA!
Ray Banhoff scrive cose che leggerete solo da lui, nella sua esplosiva newsletter che fa luce nella notte dei giorni tutti uguali. Editoriali umorali, libri, fotografie, scazzi, slanci, musica: tutta roba buona.
Abbiamo deciso che Mollette e Bengala sono cugine, per affinità, per simpatia, perché sì.
Quindi noi, cioè Davide e Jacopo, vi invitiamo a cliccare QUI e a seguire le scintille di Bengala.