foto di Luigi Ghirri
DUE RACCONTI DUE
Abbiamo pensato di farvi compagnia ad agosto così, pubblicando un numero di MOLLETTE composto da due racconti - uno di Davide Bregola e uno di Jacopo Masini -, due canzoni e due film.
Una roba da MOLLETTE, insomma.
Buona lettura,
Davide e Jacopo
I FATTI DI PAROLETTA
di Jacopo Masini
Questi fatti accaduti a Paroletta nel marzo del 1985 sono passati per lungo tempo sotto silenzio a causa della loro natura inspiegabile. A causa, cioè, di una sorta di reazione a catena simile a quella mortale innescata dal desiderio di vendetta, anche se, in questo caso, , non costò la vita a nessuno (o quasi), ma certamente la salute mentale sì.
Accadde infatti che Cesare Gambazza, una sera, rientrando dall’officina in cui lavorava come meccanico, giunto a una decina di metri dal cancello di casa, si sentisse improvvisamente invadere dal desiderio di andare a casa dei Giavarini e di ammazzarli tutti.
‘Cesare’ gli diceva una voce nel cervello, ‘i Giavarini sono delle facce di merda assassini e Giovanni Giavarini va a letto con tua moglie dal 1981 e te non te ne sei mai accorto’.
Cesare Gambazza, che sentì quella voce come una fitta in testa che gli fece anche piegare le gambe per il dolore, non aveva ancora perso del tutto la lucidità, quindi ebbe la prontezza di rispondere a quella voce ‘Ma Giovanni Giavarini è morto nel 1980’.
‘Menzogne!’ urlò la voce nella sua testa, procurando a Gambazza una fitta di dolore ancora più violenta della precedente, che lo costrinse a inginocchiarsi per terra con la testa tra le mani.
Passava di lì in quel momento Marcello Avanzini, che aveva il forno in piazza e stava andando in bottega a sistemare delle cose prima di attaccare il turno di notte, e vide Cesare Gambazza inginocchiato per terra a una decina di metri da casa con la testa tra le mani e, preoccupato, si avvicinò chiedendogli: ‘Cesare, tutto bene?’, ma Cesare, riportano le cronache, alzò la testa e lo guardò in faccia con occhi iniettati di sangue urlando e allora Marcello Avanzini esclamò ‘Oh signore, Cesare, ma cosa ti è successo?’.
A quelle parole, Gambazza iniziò a contorcersi per terra e a strepitare e a urlare ‘Non dire quelle parole! Vai via! Via!’ e poi all’improvviso smise di agitarsi, proprio nel momento in cui Marcello Avanzini sentì un dolore che lo costrinse a piegarsi e a inginocchiarsi per terra e una voce nella testa che gli diceva: ‘Avanzini, sono Gambazza. Non so mica come sono finito nella tua testa, ma dobbiamo andare a uccidere i Giavarini. Hai capito?’.
‘Aaaaaahhhh’ urlò Avanzini, ‘Cesare, cosa ci fai nella mia testa?’
‘Ma non lo so mica, Marcello. Nella mia ce n’è un’altra che non so neanche di chi è, cosa vuoi che ti dica. Però so che i Giavarini sono delle merde figli di puttana e dobbiamo farli fuori, perché scopano con tua moglie’ e Avanzini, anche lui, un attimo prima di perdere la lucidità ebbe modo di dire ‘Non sono sposato!’.
Ma la voce di Gambazza urlò ‘Menzogne!’ e il dolore raddoppiò e Avanzini perse il senno.
Non capiva più niente. Era un corpo posseduto, in balìa della voce di Gambazza, che era in balìa della voce di non si sa chi. Il suo corpo, invece, non era più diretto al forno, ma verso casa dei Giavarini, impettito come un automa, pronto a spargere sangue e fare una strage.
Avanzini procedeva così lungo la strada meccanicamente in balìa della voce di Gambazza che un po’ si scusava – ‘Guarda, Avanzini, io non so proprio mica cosa sta capitando, mi dispiace molto, non so proprio come sono finito nella tua testa’ – e un po’ lo ricopriva di contumelie e minacce e lo spronava a vendicarsi – ‘Sei sempre stato solo un debole, un debosciato e intanto che tua moglie chiavava coi Giavarini te stavi al forno tranquillo e non ti accorgevi di niente, ma è venuto il momento di farla finita, devi ucciderli tutti!’ –, fatto sta che Avanzini sentiva un senso di frustrazione terribile montargli nel petto, dovuto prima di tutto al fatto che era celibe, quindi stava andando a uccidere degli innocenti, visto che non potevano aver fatto sesso con una moglie che non esisteva, e poi perché di sentiva defraudato dal suo libero arbitrio, che lui non avrebbe chiamato così, ma il concetto era quello.
Arrivato a un centinaio di metri dalla casa dei Giavarini, Avanzini incontrò la Norma Pigazzani che tornava dal bottegaio con due sporte piene di pane, verdura, salume tagliato fino, mezzo chilo di parmigiano e due bottiglie di Lambrusco buono, che le aveva fatto comprare suo marito, che era dedito al bere, ma con una certa moderazione che lo teneva per il momento lontano dall’alcolismo.
E la Norma Pigazzani rimase piuttosto impressionata dall’espressione sconvolta dipinta sul viso di Avanzini e anche dal fatto che, in prospettiva, più indietro, vedeva Gambazza a terra che si teneva la testa tra le mani, come se fosse disperato, oppure molto dolorante, oppure entrambe le cose.
Fatto sta che si piazzò con le due sporte davanti a Avanzini e gli bloccò la strada, perché sentiva che doveva parlargli e doveva comunque capire non solo il significato di quella espressione, ma anche il motivo di quell’incedere ciondolante che le fece venire in mente un film dell’orrore visto qualche anno prima in piazza a Fontanellato, intitolato ‘La notte dei morti viventi’ che l’aveva molto impressionata, anche perché era ambientato in una casa di campagna che le aveva ricordato quella dei suoi zii e si era sentita subito proiettata dentro il film.
‘Buonasera, Avanzini’ disse, sollevando appena il braccio destro e di conseguenza una delle due sporte, ‘stai bene, che c’hai una faccia strana?’, ma Avanzini non accennava a fermarsi e continuava a camminare in quel modo da morto ambulante, con lo sguardo vuoto e un po’ di bavetta agli angoli della bocca, tanto che rischiò di travolgere la Norma Pigazzani, che, scostandosi all’ultimo, disse ‘Ma che modi sono, Avanzini, diosanto?’.
‘Aaaaaahhhh’ urlò all’improvviso Avanzini, gettandosi a terra con la testa tra le mani, proprio come Gambazza, e, dopo un iniziale spavento, la Norma Pigazzani, sentì nella testa la voce di Avanzini che gli diceva ‘Norma, mi dispiace, lo so che non ha mica senso che senti la mia voce nella tua testa, ma non sappiamo mica cosa sta succedendo’.
‘Ma cosa vuoi?!’ disse la Norma Pigazzani, che aveva lasciato andare le due sporte, con conseguente rottura della due bottiglie di Lambrusco, così che quando si era piegata a terra dal dolore, appoggiando le mani sul selciato si era fatta un piccolo taglio a una mano e si stava spalmando il sangue su una tempia.
‘Devi andare dai Giavarini e ucciderli’ disse la voce di Avanzini.
‘Ma perché?’ chiese in preda al dolore la Norma.
‘Guzzano con tuo marito’ disse la voce di Gambazza.
‘Ah, ci sei anche tu?’ disse la voce di Avanzini.
‘Ma non lo so, non ci capisco più niente’ disse la voce di Gambazza.
‘Ma i Giavarini sono omosessuali? Non mi risulta’ disse la Norma Pigazzani dolorante e perplessa.
‘Taci e vai!’ urlarono all’unisono le voci di Gambazza e Avanzini nella sua testa. E la Norma Pigazzani si alzò e si mise in cammino in direzione della casa dei Giavarini, per andare a ucciderli, come comandavano quelle voci e, prima di tutto, la voce che aveva parlato nella testa di Gambazza, che aveva innescato questo rondò della morte dei Giavarini.
Fatto sta, che nei cento metri che la separavano da casa dei Giavarini, la Norma Pigazzani incontrò Mario Aimi, che le chiese come mai aveva quella faccia e sentì di conseguenza nella sua testa le voci della Norma, di Avanzini e Gambazza che gli ordinavano di andare a uccidere i Giavarini, e lui si mise in cammino per portare a termine il compito.
Poi Aimi incontrò la Marzia Zambrelli che chiese a Mario Aimi cosa avesse, con tutto il pandemonio che ne conseguì, e lo stesso, in pochissimi metri, accadde a Gino Bottarelli e a Augusto Corradi, tanto che, alla fine, c’era una scia di gente dolorante con delle voci in testa che ordinavano di andare a uccidere i Giavarini, ma, alla fine, prese la parola la prima voce che aveva parlato nella testa di Gambazza e ordinò:
‘Ora siete una legione. Andate a uccidere i Giavarini e poche domande!’ e così Cesare Gambazza, Giovanni Avanzini, la Norma Pigazzani, Mario Aimi, la Marzia Zambrelli, Gino Bottarelli e Augusto Corradi si misero in marcia diretta verso casa dei Giavarini, che però non erano in casa.
I sette posseduti, se possiamo chiamarli così, si alternarono al campanello di casa dei Giavarini per più di un’ora, continuando a suonare senza interruzione, con lo sguardo vuoto e il desiderio di uccidere, instillato da quella voce che aveva spinto Gambazza a possedere Avanzini, Avanzini a possedere la Pigazzani, la Pigazzani a possedere Aimi, Aimi a possedere la Zambrelli, la Zambrelli a possedere Bottarelli, Bottarelli a possedere Corradi e, infine, Efrem Battioni, vicino di casa dei Giavarini, a uscire in strada con un rastrello in mano, incazzato come un drago, e a urlare: ‘Elora, avete finito di rompere i maroni, ch’a voj magner, e son due ore che suonate quel campanello di merda’ a cui fece seguire una lunga sequela di madonne, mentre inseguiva i malcapitati in direzione delle periferia del paese col rastrello in mano e, arrivati all’altezza della stalla dei Ghiretti, le cronache raccontano che la voce che aveva combinato quel casino scappò dentro le vacche dei Ghiretti, che iniziarono a muggire come matte e ad agitarsi, tanto che una scappò dalla stalla, si mise a correre verso il passaggio a livello lì vicino e morì investita dal treno.
E con la morte della vacca finì tutta questa follia e, con essere, i fatti di Paroletta.
Non è una roba inspiegabile?
Agrotheory
di Davide Bregola
In questo immenso tavolo essiccatore d’estate fa troppo caldo. Tepore umido, canicola a ondate invisibili. Dà fastidio e fa sudare. Anche a stare fermi si suda e il cuore inizia a soffiare veloce, come se avesse fretta. Basta l’ombra di un albero per mettersi sotto distesi e socchiudere gli occhi. Da lì ascoltare il microrumore della terra e del cielo. A occhi chiusi si può vedere di tutto: una botola si apre su stanze profumate al borotalco, letti altissimi dalle testiere in metallo sbalzato, amorini e ornamenti floreali in finta madreperla fanno bella mostra di sé sulle madie della cucina. Le vecchie case coloniche hanno ancora residui bellici nascosti nel solaio, pavimenti sconnessi, fessure larghe un dito da cui spiare in silenzio. Sono case che respirano, a differenza delle dimore in cemento armato che qua e là le rimpiazzano. Zanzare così grosse e pasciute che a spiaccicarne una si ricevono stimmate rosse sulla mano. Quando si è piccoli è permesso gironzolare tutto il giorno tra campi e fossi, costruire arco e frecce con ramoscelli flessibili, andare in giro con una retina per acchiappare farfalle. Quando si è bambini gli adulti non ti fanno entrare quando partorisce la vacca.
L’inverno è devastato dall’umidità delle nebbie e allora, visto che gli occhi acquistano una dimestichezza con quel muro di vapore invalicabile, si va ugualmente in giro per locali mentre i genitori si rinchiudono nella Casa del Popolo ristrutturata o in vecchie scuole elementari a norma di sicurezza e giocano per ore alla tombola. I bar sono tutti convenzionati con l’Arci e i prezzi sono sempre più bassi che in città. All’interno del locale si trovano veri e propri cimeli del passato: ranghinatori, zappe, aratri in miniatura riutilizzati che diventano attaccapanni, sculture appese al muro, soprammobili. La radio del paese trasmette senza nessun problema un disco di Liscio e l’ultima sonorità venuta da chissà dove. Dalle stazioni radio del tablet esce lo stesso suono di cinquant’anni fa e l’ultima canzone di moda. I ragazzi in piazza parlano del masterizzatore e del file da scompattare per riuscire a guardare il deep internet, alla faccia della legalità. Per giorni si è parlato della tabella dei veleni di nuova concezione per la campagna, della soia transgenica e del libro Essere Digitali di Negroponte considerato una vera e propria bibbia in questo nostro XXI secolo in cui tutto scorre e passa senza lasciare traccia. Un amico che lavora in vetreria a Copparo ha atteso la tredicesima per comperare la parabola digitale. Ora arriva con file video registrati da un canale arabo che trasmette telefilm in lingua originale e, guarda caso, qualche frase inizia a capirla perché ci sono ragazzi arabi che lavorano in una campagna qui vicino e qualcosa traducono. Stessa cosa succede coi sikh e i film indiani sembrano i nuovi d’essai del momento. E ancora: odore di erba tagliata che diventa fieno, sentieri segreti tra le canne di meliga, presenze notturne, sussurri flebili. Tutta la nebbia della cattiva stagione è la conseguenza dell’afa sopportata in estate, quando il letto diventa un forno ed è più gradevole passare la notte seduti sugli scalini di casa. A occhi chiusi si può vedere di tutto: l’amico che, da bravo body artist inconsapevole, prende una lametta e inizia a tagliuzzarsi il braccio incidendo il nome della sua bella nella carne. Un altro amico, con gli spilli intinti nell’inchiostro si fa disegni marinareschi senza sapere bene cosa stanno a significare. C’è il salnitro sui muri delle vecchie case. Lo si raccoglie nella carta di giornale e si fa una bomba rudimentale dall’effetto scintillante; magari si usa come ravvivante del fuoco per smaltire il cellofan delle serre in cui si coltivano meloni. I sadici più incalliti hanno il coraggio di prendere i gattini appena nati, li mettono dentro la borsa in nylon della Coop e li gettano nel fiume. La domenica prendono un coniglio dalla gabbia, lo appendono al muro con la testa in giù e gli danno un colpo secco sul collo, spezzandogli l’osso. Con un taglio netto del coltello affilato zwirt! tolgono la pelle e rimane un corpo nudo, pieno di venuzze azzurre: sembra il figlio di Eraserhead. Il caldo è insopportabile, d’estate, e adesso ancora di più per colpa della fascia d’ozono assottigliata, dicono. Qualche amico porta a casa dall’università Adobe Acrobat e allora si fanno pagine in formato html tra le più strambe: Accademia del Lambrusco di Quistello o Centauri cibernetici o Orchestra folk Luigino Roncatti fans club, con pezzi di bassa avantgarde in formato Mp5 che si possono ascoltare in rete. C’è chi si sta costruendo da anni una navicella spaziale ed è iscritto all’Associazione Astronauti Autonomi: vogliono andare sulla luna senza essere monopolizzati da Cape Canaveral. Un po’ fanno finta, un po’ ci credono, come quella volta che hanno costruito con lastroni di ferro sottile una barca e da Sermide sono arrivati alle foci del Po a Comacchio cantando vittoria. Le chiese hanno campane ferme da anni. Sono state sostituite da amplificatori. Sul campanile capeggia l’altoparlante che emette suoni metallici e canzoncine liturgiche mentre Gesù, dalla croce, essendo morto Don Camillo, non sa più con chi parlare. Campi aromatizzati dal piscio di maiale, allevamenti modello dove si pigia un bottone e la pappa è servita per cinquemila suini. Vendemmia meccanizzata con filari regolari e geometrici come i quadri di Mondrian. Il vecchio viticcio contorto e scomodo è completamente domato. Latte ultra pastorizzato per decantare mosche e pus giallognoli, ulcere, mucose infette. Formicai infiammati con la lente d’ingrandimento. La rururbanizzazione rende tutti un po’ più alla moda ma sempre critici nei confronti delle manie provenienti dall’estero. Magari c’è quello che gira per la piazza con la stella da sceriffo sulla camicia e gli speroni, vuol fare l’americano ma parla in dialetto stretto. Oppure la ragazzina piena di piercing, sorta di installazione umana, la domenica prepara gli anolini e tira la pasta col mattarello. In primavera i campi sono ricoperti di serre in cellofan con all’interno piante di fragole, meloni, angurie, asparagi e altri ortaggi. Il problema arriva quando bisogna smaltire tutta quella plastica. Qualcuno fa il furbo e di notte appicca il fuoco sui teloni e – vabbe’ – nessuno se ne accorge perché è sempre “autocombustione”. I silos sono messi in fila vicino alla stalla e le case coloniche da lontano sembrano rampe di lancio per la Nasa. Sotto alla barchessa c’è la macchina demolita ma funzionante, ogni tanto si accende e si va a fare gincana nei campi e sullo sterrato. Qualcuno tira fuori il Caballero da cross o la Yamaha con su l’adesivo del Cosmic e crea dal nulla una pista da speedway con avvallamenti, rampe e box di lamiera. I capanni in disuso un tempo avevano molti dipendenti al loro interno, ora li hanno resi inagibili perché i tetti sono in amianto e stanno lì, con i loro cartelli «vietato l’ingresso», ma si sa che alla fine per stare tranquilli e appartati con una ragazza, quelli sono i luoghi più isolati. Gli zuccherifici della zona sono stati chiusi qualche decennio fa e l’ammasso di ferraglia al loro interno è stato ricoperto dall’edera e da piante rampicanti. Sono diventati veri e propri luoghi postindustriali, scenari ideali per spettacoli di teatro avangarde. Il cimitero dei trattori è diventato un museo della meccanica, qualcuno entra a cercare pezzi di ricambio per motori ancora funzionanti. Gli pneumatici usati sono ammassati in disparte. Passando vicino, a causa del caldo, l’odore di gomma si confonde con l’afrore del concime biologico appena cosparso sul campo arato. La mattina presto, vicino ai tigli delle vie, c’è sempre il cane da tartufo con il padrone appresso che lo incita alla ricerca. In luoghi impensati qualche novello archeologo guarda in terra e raccoglie pezzi di vaso, ossa, metallo arrugginito, illudendosi di avere a che fare con oggetti di chissà quale epoca. A ridosso dei cassonetti per la raccolta differenziata si raggruppano persone che rovistano tra mobili rotti e batterie di trattori per cercare gli scarti di altri e riutilizzarli. Il matto del paese guarda in terra, nello slargo della piazza, in cerca di cicche ancora buone per fare un tiro o due e poi fa finta di essere un partigiano che ha combattuto nella zona boschiva e dice di non aver dormito per una settimana intera quando gli alleati hanno bombardato mentre il nemico tedesco batteva in ritirata. Siccome la racconta proprio bene, si fa finta di credergli e lo si ascolta con pazienza. La signora del negozio di corsetteria scaccia il fuoco di Sant’Antonio con parole strane e rituali magici mentre suo marito cola piombo bollente da un pentolino, fa segni della croce sulla testa di chi ha i vermi alla pancia e, quasi fosse una magia, il malato guarisce. È dove non succede mai nulla che la gente sogna di più, in mancanza d’altro, e finisce per costruire le cose che ha sognato.
DUE CANZONI
DUE FILM