MOLLETTE #25 - La fotografia (quella giusta, che prima era partita per sbaglio)
Storie stese ad asciugare
-made in Italy-
machis&madonne
(Madonna dell'Olmo, ex voto, restaurato di recente)
Risale a circa un secolo fa, costruito in seguito a un incidente con carro e cavalli risoltosi senza danni.
VISTO CHE QUESTA È UNA NEWSLETTER PUNK, È PARTITO PER SBAGLIO PERIMA CHE FOSSE COMPLETATO.
ADESSO POTETE LEGGERLO COMPLETO. SEMPRE PUNK, MA COMPLETO.
TOTALITÀ E DETTAGLI
Ho sempre amato la fotografia, sarà perché ci sono nato.
Mia madre, quando ero piccolo, amava moltissimo fare fotografie. Aveva anche frequentato un corso e parlava di asa, di aperture, di sviluppo della pellicola e portava a casa libri sui fotografi che io mi mettevo a sfogliare. Alcuni mi piacevano più di altri, soprattutto Man Ray, Cartier Bresson e Luigi Ghirri.
La fotografia, secondo me, è il tentativo disperato di catturare insieme una piccola porzione di mondo e il tempo che scorre. Proprio per questo è la forma d'arte più struggente di tutte, secondo me.
Quando guardo una fotografia, quella porzione di mondo in quel preciso istante diverso da tutti gli altri che lo hanno preceduto, seguito, o che sono accaduti in tutto il resto del mondo e dell'Universo nello stesso istante, percepisco furibondo il senso della perdita, la luminosa inutilità di tutte le cose che sommate, come i punti di un dipinto di Seurat, fanno la vita, la luce, lo spazio dentro questa vita che chiamiamo umana.
È impossibile percepire la totalità delle cose. Non tanto l'infinito, quando l'infinita totalità delle cose che accadono ed esistono nello stesso istante. Un istante dopo l'altro.
Per assurdo, solo una infinita infinità di scatti di ogni singolo istante sparsi sul pavimento del Cosmo e mostrati tutti insieme potrebbe restituirci il senso di quella totalità. Ma sarebbe paradossalmente impossibile vedere tutti insieme quegli scatti, quindi non ci sarebbe soluzione, come nella testa debilitata e afflitta e malinconica di Funes di Borges.
Scatto continuamente fotografia col mio smartphone. Spesso mi domando perché scelgo una certa luce, un'ombra, una prospettiva con un taglio e cose così. Mi viene da dire che vedo dentro quella porzione di mondo un sentimento che sta fuori di me.
Gianni Celati ha lavorato a lungo con Luigi Ghirri e coi fotografi. Ha detto in diverse occasioni che il lavoro dei fotografi gli sembravo più pulito e più onesto, perché buttava a mare tutte quelle menate dell'interiorità che i letterati tirano avanti per tutta la vita. La fotografia è esposta al mondo, vive la realtà come inciampo, come un ostacolo e anche noi, quando usciamo dal delirio delle intenzioni e dell'intelligenza, sbattiamo nel mondo, negli alberi, nelle caffettiere, nelle case, nei sassi, nei corpi degli altri, e troviamo conforto nello stare fuori di noi, quando possiamo vivere nello sguardo e nelle parole degli altri.
Non mi piace molto essere fotografato. Mi piace fotografare. C'è qualcosa che accomuna la scrittura e la fotografia? Forse che raccontando possiamo dimenticarci di noi. Immaginando la vita degli altri e del mondo fuori, possiamo smetterla di inseguire la nostra mente scimmia, che ondeggia tra i rami delle nostre paranoie, dei pensieri altalenanti tra emozioni che ci portano su e giù come una boa dentro l'immensità del mare.
Quando guardo le cose mi sforzo di non dimenticarmele. Lo faccio da sempre. I miei amici dicono che è fastidioso che mi ricordi così tante cose, con tanta precisione. Ci ho pensato e, parlando con la mia moglie, mi è venuto da pensare che dipende da un fatto: fin da quando sono piccolo, quando vedo qualcosa che mi colpisce, faccio di tutto per berlo insieme a tutti i dettagli che lo circondano, per non dimenticarlo. So che quella cosa lì non la vedrò più e tento l’impresa disperata di conservarla nella mia memoria. Le facce, le cose, le luci, le andature; non le parole.
La fotografia, più del cinema o della narrativa o del fumetto, ci insegna a osservare. A guardare il mondo, ma non nel suo complesso, nella sua impossibile totalità, quanto i dettagli. Il mondo inesplorato è fatto di dettagli. Le avventure cosmiche più spericolate avvengono sul nostro tavolo da lavoro, tra tasti, matite e gomme; e poi sulla pelle di una persona amata, tra le sue ciglia; nella sabbia di una spiaggia o nella rugosità della corteccia; nell'istante in cui un volto cambia espressione svelandoci qualcosa che non possiamo capire. Miliardi di dettagli che non fanno niente per venirci incontro e che possiamo contemplare all'infinito dentro una foto.
Due anziani che, mano nella mano, camminano nella piana davanti all'Alpe di Siusi; un bambino senza una gamba che corre con la sue stampelle verso un muro spaccato da un'enorme crepa; la schiena e i fianchi di una donna che somigliano a un clavicembalo.
Tutti questi dettagli inafferrabili, fuori dalla portata dei nostri sensi, stanno dento il cuore matto e struggente della fotografia.
Guardare quello che ha guardato un altro. Essere con lui nell'istante in cui lo ha catturato nelle correnti del mondo che non esiste più, come un pesce di decenni fa che continua a nuotare immobile davanti ai nostri occhi.
C'è qualcosa di più struggente, salvifico, doloroso e pieno di gioia della vita vissuta da altri, catturata per un istante e per sempre viva sotto i nostri occhi?
Io non lo so.
MR POTATOES - LA MACCHINA AMMAZZACATTIVI E L’OMBRA DI EZRA POUND
di Elisa Baldini
Ho un amico specializzato nel catturare il momento più mostruoso della manifestazione fisica di un essere umano nel mondo. Un po’ lo fa apposta, un po’ gli viene naturale. Ti scatta una fotografia di sguincio con la prospettiva inclinata sapientemente e scrive la tua versione personale di Uno, nessuno e centomila: improvvisamente scopri di avere un naso a beccafico, il mento sporgente, gli occhi spiritati, un equilibrio simmetrico delle parti pari a quello di Mr. Potatoes. Nonostante a volte anche io sia turbata da queste manifestazioni orripilanti di me fatte brillare nell’etere, bisogna ammettere che fa un servizio di pubblica utilità non da poco, almeno nella cerchia ristretta di amici e conoscenti: ci dimostra che per quanto ci sforziamo di trasmettere all’immagine fotografica la versione migliore di noi stessi, ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge. Come dice il caro Roland Barthes[1], che per partito preso, necessità sincera e attitudine vagamente spocchiosa va per forza citato se si tocca il tema: essere fotografati vuol dire, spesso, vivere una “micro-esperienza della morte", diventare “uno spettro”. Lo spettro di quello che siamo, lo spettro di quello che vorremmo essere, lo spettro dell’essere vivente che eravamo prima di diventare un semplice pezzo di carta che vagamente ci assomiglia. Nel 1948 Roberto Rossellini gira un simpatico filmetto dal sapore vagamente surrealista che per mancanza di finanziamenti verrà piantato lì e terminato dai suoi collaboratori, uscendo abbastanza in sordina nel 1952: La macchina ammazzacattivi. Il soggetto di Eduardo De Filippo, ambientato in costiera Amalfitana, racconta la parabola del fotografo Celestino, uomo di una bontà così ostinata da diventare talvolta un po’ tonta. Un giorno si presenta nel suo negozio un vecchino tutto incartapecorito che assomiglia al Santo Patrono del suo paese e gli dice: “Celestino, è inutile che tu ragioni tanto di bene, per fare del bene bisogna levare di torno il male. Insomma, qualche testa deve cadere, Celestino. Da oggi in poi la tua macchina fotografica avrà questo straordinario potere: ammazzare. Se qualcuno ti sta sulle palle te fai così: prendi una fotografia che gli hai fatto, la appendi al muro nel tuo studiolo, e la ri-fotografi.” Celestino non ci pensa due volte, e esegue subito la procedura con un suo nemico storico che si era fatto fotografare mentre faceva il saluto romano. L’effetto mortale di questa ri-fotografia è insolito: la vittima non si accascia semplicemente al suolo, ma si congela nella posa esatta in cui era stata precedentemente frizzata dall’apparecchio. Altro che micro-morte di cui parla Roland Barthes, questi ci rimangono letteralmente secchi in posa: al destrorso, ad esempio, non c’è stato verso abbassargli la mano, hanno dovuto costruire una bara apposta per seppellirlo. A Celestino questa cosa di ammazzare un po’ gli fa specie, ma poi pensa: o quanti ce ne potranno mai essere di cattivi in questo ridente paesino della costiera amalfitana? Uno, due, tre al massimo: poi il bene trionferà e io andrò in Paradiso. Hai voglia! Alla fine gli tocca tirar fuori praticamente tutto il suo archivio fotografico e tappezzarci la parete manco fosse in una serie televisiva di David Fincher, pronto a dare una bella smitragliata collettiva. Quando scopre che il suo mandante non era proprio Sant’Antonio ma più un parente “da parte di Caino” va a ripescare pure una sua buffissima foto in costumino a righe per auto-punirsi: per fortuna un lieto fine buonista rimette tutto in ordine, cancella i morti con una cimosa e ci regala la morale di questa favola un po’ sempliciotta, esposta da una voice over democristiana, anche fine poeta:
Coltiva il bene senza esagerare
rifuggi il male se ti vuoi salvare
non ti affrettare a giudicare
e pensaci tre volte prima di punire.
Insomma, se tu vai a cercare il pelo nell’uovo, caro Celestino, non ne salvi uno. Tu fai una strage. Siamo tutti delle teste di cazzo, chi più chi meno. E quindi niente, il film è finito e rimaniamo qui, con questo apparato magnificente di immagini che ci intasano il cloud, e senza nessuna possibilità di ammazzarci davvero di selfie. E di questi tremila scatti a vuoto ce ne fosse uno che ci garba davvero. Ora si possono anche ingrandire con le dita a pinza: io quando ingradisco una mia foto e mi trovo di fronte la macroscopia della mia espressione mi sento sprofondare nella nebbia del nulla che rosicchia il mondo de La storia infinita. Aveva ragione, come sempre, Roland Barthes: se non c’è il talento di chi scatta o l’amore di chi guarda, in fotografia siamo solo dei “corpi sterili”. E “l’aria, l’ombra luminosa che accompagna il corpo”, come lui definisce la verità di una persona ritratta, si manifesta come un miracolo proprio “in quanto non si dà importanza”. Ripenso alla mostra che ho visto recentemente a Villa Bardini a Firenze dedicata a Lisetta Carmi dove sono esposti gli scatti che fece a Genova nel 1966 al poeta Ezra Pound, di cui Umberto Eco ha detto: “Le immagini di Pound scattate da Lisetta dicono più di quanto si sia mai scritto su di lui, la sua complessità e natura straordinaria.” Eppure queste fotografie erano nate quasi per caso: la Carmi accompagnava un giornalista che doveva intervistare Pound a Rapallo, dove viveva in miseria e pressoché dimenticato da tutti dopo essere tornato dall’America e aver passato 15 anni in un manicomio criminale. I due brigano un po’ tra le viuzze, alla fine trovano la casa e bussano alla porta. Si affaccia Pound. Sta lì in silenzi sulla soglia per qualche minuto, in vestaglia, pensieroso e confuso, come se non li vedesse. Sembra pensare: “devo essermi proprio rincoglionito del tutto, mi sembrava che qualcuno avesse bussato. Madonna che male al groppone anche oggi! Aspetta che mi scappa anche da andare in bagno.” Poi volta il culo e torna in casa. In quella manciata di secondi la Carmi scatta 12 fotografie immortali, bellissime: in quella sospensione stanca ed indifferente ha acchiappato l’ombra viva di uno dei più grandi poeti del ‘900. Né buona né cattiva: vera.
[1] Roland Barthes, La camera chiara, Nota sulla fotografia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2003.
IL FILTRO CHE VUOI ESSERE
- Ci vediamo questa sera?
- Sono un po’ stanca, risponde l’amica.
- Dai giusto il tempo di farci un selfie!
- Hai detto selfie? Allora sì! Alle 22 in centro.
Le due amiche si incontrano, ben vestite, senza trucco.
La pelle ringrazia, anzi la beauty routine ringrazia per non aver messo il fondotinta e tutte le altre cose. Certo potrebbe apparire strano, con un paio di sandali dorati e un tubino stretto stretto, non aver messo nemmeno un filo di trucco. Eppure è così.
Le due amiche sono acqua e sapone. Un richiamo alla naturalezza? Al “devi essere te stessa?” No, un richiamo al “puoi essere chi vuoi”. Lo si capisce dal fatto che appena arrivano vicino a quella fontana nel centro della piazza rinascimentale, entrambe le giovani donne estraggono il cellulare e no, non si fotografano subito. Guardano il telefono, scorrono sullo schermo con il dito indice mentre guardano qualcosa. A giudicare dalle sopracciglia aggrottate deve essere qualcosa di davvero interessante.
- Io scelgo questo e tu? Domanda quella con il tubino.
- No, io scelgo “Holliwood3.”
Un passante sente questa conversazione e si ferma vicino alle due senza che loro se ne accorgan. Di cosa stanno parlando?
- Guarda, io opto per il filtro bacio. È più raffinato. Fa meno labbroni.- Ma come, non facciamo lo stesso filtro?
- No. Ad ognuno il suo.
- Corretto, allora dài scatta!
Fatto il selfie, anzi fatte una miriade di fotografie con il cellulare, le due procedono ad un’accurata selezione.
Il passante che piano piano si è avvicinato sempre più incuriosito, riesce a vedere, in tralice, il risultato degli scatti e si chiede: ma quelle della foto sono le stesse qui davanti a me?
Quella con il tubino nella foto ha rossetto rosso, sopracciglia ad ali di gabbiano molto spesse, denti bianchi come se ogni sera bevesse bicarbonato, e i capelli…i capelli sono lisci, anche se i suoi in realtà sono mossi.
Quella con i sandali dorati invece nella foto ha le labbra molto carnose, ciglia lunghissime e una pelle bianchissima, nonostante dal vivo abbia le labbra sottili, ciglia normali e carnagione piuttosto olivastra.
Il passante resta fermo, con aria dubbiosa.
Nel frattempo le due amiche si accorgono di questa persona e quasi insieme gli chiedono:
- Può farci una foto lei?
- Certo.
- Allora signore, deve usare questo filtro, si chiama “Fascino”.
- Perché volete il filtro?
- Perché vogliamo essere così.
- E perché?
- Perché ci piace.
- Vi piace essere altro da ciò che siete davvero?
- Ci piace diventare ciò che vorremmo essere davvero.
Il passante senza fare altre domande scatta la fotografia e restituisce il telefono alla proprietaria.
- Grazie! Dice lei.
- Prego. Risponde il passante. Poi sospira, guarda in basso e subito rialza gli occhi verso le due amiche aggiungendo:
- Posso essere anch’io quello che voglio essere?
- Certo!
- Vorrei il filtro “Carino”
- Bene, si metta in posa.
- Ecco la foto.
Lui la guarda e esclama: “Oh! come sono diversamente io.”
Poi saluta le due amiche, si incammina verso casa divertito pensando a quanti “diversamente io” potrà incontrare d’ora in poi.
Fotografia Anemica
L'anemia è una condizione in cui il numero di globuli rossi non è sufficiente a trasportare abbastanza ossigeno da soddisfare i bisogni dei diversi tessuti e organi del corpo. In fotografia, quei globuli rossi sono rappresentati dall'Elemento fondamentale, il nitrato d'argento, composto chimico sensibile ai fotoni che colpiscono sia la pellicola che la carta da stampa. Nelle carte analogiche lasciate - per anni - alla luce naturale del tempo, il nitrato d'argento sarà evaporato, e i fotoni non saranno più sufficienti per trasportare la luce necessaria a visualizzare l'immagine sulla carta: questa mancanza è quella che definisco Anemia Fotografica. L'immagine di una fotografia, attraverso successivi getti d'inchiostro, reagisce casualmente alle diverse tonalità del colore, a seconda della quantità di nitrati ancora presenti sulla superficie da impressionare; questa alchimia gesto-carta-colore, aiutata da vernici e manualità, tende a trasformare l'immagine in pittura.
“Gente del PO” Fotografia Anemica su carta Ferrania Vega K208 Bromuro Normale (anni ’50), lavorata con vernice emulsionata con etanolo, riprodotta e rilavorata con successivi passaggi di vernice acrilica nel grande formato 100 X 70 cm. Fotografia di Michelangelo Antonioni, edita sulla rivista “Cinema”, n. 68, 25 aprile 1939 (per gentile concessione dell’Associazione Michelangelo Antonioni). 2022 ©Tassi Stefano
Foto, non foto.
Qualche volta fuori tempo, altre fuori dal tempo. Molte delle mie fotografiche sono scattate in momenti di apparente immobilità, in cui sembra non accadere nulla, senz'ombra di azioni o eventi eclatanti, non di rado senza presenza umana riconoscibile, se non per le tracce che lascia. Altre serie di immagini sono il risultato di collage di scatti di cui se non fosse per lo strumento, digitale, non sarebbero collocabili con precisione né nel tempo né nello spazio. Quella che alcuni (o molti, non ho una stima numerica) definiscono “non fotografia”, non assolvendo al compito primario che della fotografia fu, il documentare momenti, pubblici e privati, azione, “quello che accade”, cosa che ancora faccio, ma non come priorità.
Oggi un fatto, un evento, un sorriso stesso finiscono in rete e appaiono su ogni dispositivo del pianeta, nel momento preciso in cui nascono, immortalati da innumerevoli prospettive. Come “documento”, storico e non, tralasciando le qualità tecniche e artistiche, sono più visualizzati e certi contenuti amatoriali o presi dalle telecamere di sorveglianza rispetto a scatti fotografici professionali. Immagino che fra non molto l'intelligenza artificiale saprà creare non solo immagini realistiche, ma l'esatta copia -o quasi- di un momento prima ancora che accada, basandosi su algoritmi.
Io sono fuori tempo. Fuori dal tempo.
M’interessano i tempi morti, lenti, vuoti. Quelli in cui tutto è già accaduto da tempo, o deve ancora accadere. E m’interessata il rapporto fra uomo e territorio, la tracce che lascia e il modo in cui si plasmano a vicenda.
M’interessa, entrando ancora più nel profondo, la relazione fra corpo, anima e natura, nella forma e nella sostanza, da qui i collage in cui il corpo nudo, scevro da ogni sovrastruttura, diventa tutt’uno con corsi d’acqua, radici, nuvole, si identifica con una pianta selvatica, o riceve in prestito ali di farfalla (purché non strappi i fiori sui quali la farfalla si posa). O, per contrasto, il femminile-corpo e il maschile-pianta, come bocciolo, o come spina, messi a confronto.
Vedo l’archetipo.
M’interessa, in ogni scatto, in ogni collage, la ricerca di bellezza, il raccontare le cose con poesia, anche quando il significato intrinseco diventa atroce, ambivalente surreale (la donna che sta sopra una spina, o la coccinella che sbrana afidi vivi fra il grano, l’arcobaleno che cade come spazzatura in un rimorchio abbandonato lungo la provinciale di un paese che va spopolandosi, il camino di un trattore che diventa una macchina per fare le nuvole).
È una non fotografia direbbero, dicono alcuni, inutile per lo più a fini documentaristici, non riporta niente di rilevante…Ecco, potrei rispondere che certo, non è didascalica, non vuole istruire sulla società, sul mondo. Mostra una parte di realtà ulteriore, tanto intrinseca da rimanere inconscia, tanto visibile da essere assimilata come ordinaria, metastoria trascurabile nel quotidiano. Qualcuno però disse che il battito d’ali di una farfalla può provocare uno tsunami all’altro capo del mondo, qualcuno crede nel karma, c'è chi pensa che sia il caso a decidere, per cui chissà che domani la farfalla della mia banale foto non si posi sulla mano di una ragazza, che fermandosi a guardala indugiasse un minuto in più sulla via, incontrando proprio in quel minuto il padre del suo futuro figlio o figlia che, da grande, contribuirà a salvare il mondo. Mia madre, da cinica, direbbe “o a distruggerlo del tutto”, ma questa è un’altra storia.
LE FOTOGRAFIE
di Davide Bregola
Ho perso tante di quelle opportunità di fotografare bei momenti, che adesso stanno dentro di me ma non posso condividerle con immagini. Come quella bicicletta lasciata lì appoggiata al muro del negozio di articoli sportivi. Il titolare l’aveva lasciata così perché era del padre che il giorno prima di morire era andato a trovarlo in bici e poi era tornato a casa a piedi. Passavo con sole, pioggia, neve, e la bicicletta era lì appoggiata al muro del negozio. Mi faceva un enorme piacere vederla lì. Non l’ho mai fotografata. Invece dovevo farlo perché qualche giorno fa qualcuno, col favore della notte, ha tagliato la catena e si è portato via la bici.
C’è un’altra foto che non ho mai fatto. Si tratta della sera in cui nel 1999 passavamo dal XX° al XXI° Secolo, i Media ci dicevano che ci sarebbe stato il Millenium Bug e conti correnti, computer, dati, Borse internazionali sarebbero spariti in un istante. 31 dicembre 1999, 1 gennaio 2000. Ero al decimo piano di un lungo condominio vicino alla stazione di Mantova. C’erano diversi amici e c’era un senso di smarrimento dovuto a tutta la minaccia promessa da giornali e tv. Nessuna fotografia di quella sera. Nessuna foto di me in auto, a girare tra Mantova e Ferrara, al buio, da solo, a 28 anni, con le idee confuse. Con le idee confuse e nemmeno una foto. Nemmeno una.
Nessuna foto in sella alla Suzuki da motocross che mi prestava Simone per andare sulle collinette create in campagna dalle benne che pulivano i canali.
Nessuna foto della casa di Ferrara in cui ho abitato per molti anni. C’è solo la foto dove io, Giovanni, Ale e le amiche greche ci vedevamo per pranzi e cene prima di studiare. E’ una foto ravvicinata in cui ci siamo noi, uno addosso all’altro. Ma della casa nessuna traccia.
Nessuna foto di me che andavo a Macacari, tra Ostiglia e Nogara, con mio padre, a cercare reperti archeologici vicino a un sito in cui avevano trovato palafitte. La domenica ci mettevamo gli stivali neri, lui portava la canna da pesca a mulinello, io portavo un piccolo rastrello e una paletta di metallo per immaginare di trovare cocci dipinti e ossa antiche.
Nessuna foto di me col mal di denti, urlante, alle grotte di Frasassi. Non sono potuto entrare perché le mie urla avrebbero potenzialmente provocato la caduta di stalattiti appuntite. Almeno questo diceva la guida. Così rimasi fuori, in braccio a mia madre, mentre papà si univa a una comitiva per entrare. Capii quel giorno la differenza tra stalattiti e stalagmiti.
Nessuna foto del pastore tedesco che avevo trovato, a Correggioli, in campagna, e avevo portato a casa per poterlo adottare. Ricordo solo che era zoppicante. Un giorno venne il veterinario da Ostiglia, me lo fecero vedere per l’ultima volta, lui e un altro signore, e poi uscirono con una specie di lenzuolo bianco che appoggiarono nel baule e ripartirono.
Nessuna foto di quella volta in cui ho incontrato Giuseppe Pontiggia, nel periodo del suo “Vite di uomini non illustri”. Fu lì con lui che provai a dire che amavo scrivere e mi disse di aspettare.
Nessuna foto di quella volta in cui andai a un matrimonio gitano, nel 1986. Il matrimonio durò almeno una settimana. C’erano auto bellissime, di grossa cilindrata, e donne meravigliose.
Nessuna foto di quella volta in cui andai ad ascoltare Beck a Ferrara in Piazza Castello. E Sakamoto. E i Sonic Youth a Correggio. Niente di niente.
Nessuna foto di quando andavo con le assistenti sociali a fare il giro dei pazienti psichiatrici, a casa loro, per vedere come stavano. Spesso portavamo un contenitore a più strati con cibo all’interno. Un giorno uno di questi, nella sua casa sperduta nel bosco, si era nascosto chissà dove. Toccava a me cercarlo. In terra almeno dieci centimetri di ciccotti di sigarette fumate. Si era nascosto dietro a una porta e quando entrai l’aprì. Aveva in mano un enorme coltello dalla lunga lama. Mi sa che si chiamava Mario. Corsi fuori dicendo all’assistente sociale di usciere con me. Entrammo nella Panda dell’Asst e fuggimmo.
Nessuna foto di quando andavo alla Mostra del cinema di Venezia e in una visione avevo a fianco Takeshi Kitano. Nessuna foto di me a Torino, al cinema vicino alla mole antonelliana, perché era arrivato Aki Kaurismaki a parlare del suo cinema.
Nessuna foto di me e Andrea Betini. Ci appostavamo in nascondigli improvvisati per sparare con la carabina e bucare le grondaie delle case. La guerra lì, nascosto, mi sembrava così vicina che in un istante entrambi diventavamo cecchini che aspettavano i nemici in mimetica.
Nessuna foto della vecchia al primo piano che ci sgridava mentre eravamo giù, nel cortile, a giocare a palla. Vestita di nero, con il fazzoletto in testa, seduta su una poltrona, immobile guardava fuori e ci aspettava per urlare. Per noi la strega esisteva veramente. Era lei. Urlava cose incomprensibili, per me erano abbai.
Nessuna foto di un meraviglioso caminetto in una casa di Bergen. Ci arrivai da Oslo in treno, dopo dodici ore, e alloggiai in quel posto dove le pietre del camino mi sembravano l’esatta summa di tutta l’opera di Munch.
Nessuna foto di me e mio fratello assieme il giorno in cui è nato e io dovevo ancora compiere sette anni.
Nessuna foto di quando lavoravo in ferrovia e avevo la salopette blu, con le scarpe antinfortunistiche e una t-shirt con la scritta Ferrovia Suzzara-Ferrara. Nessuna foto delle trasferte a Pesaro, nelle estati in cui aggiungevano, per i turisti, il treno Bergamo-Pesaro. Là in città, mentre facevo manutenzione al locomotore, parlavo di filosofia con Simone che puliva i cessi e vuotava i bidoncini dell’immondizia. Poi Simone è andato in India. E’ tornato e ha fatto il carbonaio sulle colline marchigiane. Ora è l’editore di Portatori d’acqua, una casa editrice bellissima e piena di scoperte.
Invece ho una foto, o meglio, c’è una foto nel cassetto del grande mobile della casa dei miei, in cui ci siamo ancora tutti. E’ una foto del 1980 dai colori sfumati. C’è ancora mia nonna vestita di nero, c’è l’altra nonna vestita di chiaro. C’è mio zio Francesco ancora giovane, ci sono io in piedi, piccolo, vicino alla zia che ha in braccio una mia cuginetta. Ci siamo ancora tutti, immacolati. E dietro di noi un grande immobile verde con la scritta rossa Hotel ristorante Esso. C’è mio zio con la faccia scavata e gli occhialoni dalle lenti arancioni. Quello che stava sempre in Irak e sulle piattaforme petrolifere. Portava a casa le cassettine di Nina Hagen e Santana. Mia madre sembra una ragazzina, mio padre un ragazzo coi jeans e la giacca che adesso si direbbe vintage. Io me la guardo ogni tanto quella foto perché quello è un tempo sospeso, bloccato, in sospensione, e siamo tutti lì, con alle spalle quella specie di casone parasovietico, e nell’inquadratura c’è un pezzo di Fiat 124 verde ma di una sfumatura diversa da quella dei muri. Sorridiamo e non sorridiamo, c’è una tristezza di fondo in quelle facce proletarie, sottoproletarie, contadine, che si sono tirate un po’ su dal loro destino e stanno lì in posa aspettando che il tempo sfalci tutto, sfalci quei sorrisi con quei denti appena un po’ decenti da poter essere in grado di mangiare il companatico che i camerieri di lì a breve avrebbero servito al ristorante che c’è alle loro spalle.
MÓNOS: RITRATTI DI CASE ISOLATE
di Sara Occhipinti
Darei tutti i paesaggi del mondo per quello della mia infanzia.
E.M. Cioran
Mónos è un progetto di Vincenzo Pagliuca sviluppato nel periodo 2015-17 e poi pubblicato dalla casa editrice Hartmann a novembre del 2022.
Il titolo mónos è un termine greco antico che significa uno, unico, costituito da uno solo. Il progetto/libro è infatti una raccolta di case singole, tutte diverse le une dalle altre e isolate rispetto ad altre abitazioni e ai contesti urbani, immerse nel paesaggio rurale.
Le prime fotografie di mónos nascono nell'entroterra campano, un territorio ben conosciuto e familiare all'autore. Il lavoro poi è proseguito in altre sei regioni italiane, coinvolgendo tutto l’Appennino meridionale, dal basso Lazio fino all’Aspromonte.
Le fotografie di Pagliuca nascono sempre, e questo progetto non ne è esente, da un metodo di lavoro costante e sistematico, con alla base una rigorosa disciplina.
Per quanto riguarda i soggetti, si tratta come anticipato, di case singole, centrate e opportunamente distanziate dai limiti dell'inquadratura, e del loro contesto naturale. Di quest'ultimo non si vede che un accenno, una sorta di corolla intorno la casa. Eppure in queste immagini così pulite e nitide, anche del paesaggio si riescono a cogliere e riconoscere facilmente i dettagli.
E’ subito evidente che le case protagoniste di mónos non sono state selezionate per una qualche specifica attrattiva o qualità architettonica. Sono abitazioni anonime, ordinarie, esito di una costruzione "povera", informale e non di una prestigiosa e oculata progettazione
.
Sul piano metodologico, il lavoro di Pagliuca vede due momenti che l'azione del fotografare poi sintetizza e unifica. Una prima fase che potremmo definire di ricerca e di selezione delle abitazioni singole nel territorio; la seconda con la restituzione di significato, di legame e di equilibrio tra queste case e il loro contesto ambientale.
La scelta dell'autore di realizzare queste fotografie, cercando delle precise condizioni di luce- quelle del momento prima del sorgere del sole e durante i mesi invernali-, comporta una certa garanzia di omogeneità luminosa e cromatica tra le immagini che si riferiscono a luoghi e periodi differenti.
Porre l'attenzione poi su un unico "tipo" edilizio- per l'appunto la casa singola-, consente di costruire una serie omogenea ma aperta, e delinea una sorta di mappatura nel territorio italiano appenninico, non rigorosa, ma ugualmente significativa da un punto di vista urbanistico- territoriale.
Ma andando più a fondo ci si rende conto di quanto mónos sia un progetto duale che nasconde un lato “irrazionale”.
Da un lato si tratta di una ricerca meta-scientifica, vicina negli approcci e nei metodi all'urbanistica e alla pianificazione territoriale e capace di creare un'estetica pulita, minimale, simbolica. Come afferma l'autore "queste abitazioni si stagliano nel paesaggio come monoliti".
Dall'altro esso esprime anche una forte componente immaginativa, fantastica che, poi, è probabilmente ciò che rende queste immagini così attrattive e ipnotiche.
Sempre Pagliuca definisce le sue fotografie dei "ritratti", utilizzando un termine che solitamente è riservato agli individui. E non ha tutti i torti, perché a guardarle bene- o meglio, a guardarle come ha saputo fare lui-, queste case ci fanno pensare a delle persone e ci invitano ad amplificare la nostra immaginazione. Dalle forme edilizie emergono dei tratti antropomorfi: finestre che sembrano occhi, pilastri come nasi, tetti che diventano chiome, porte come bocche. Si "muovono" nello spazio circostante, lo toccano ora con una pensilina ora con una scala o un caminetto, cercando una connessione con esso.
Seguendo e imitando lo sguardo di Pagliuca, riusciamo a vedere le abitazioni di mónos, che per tipologia sono isolate, quasi integrate con il paesaggio.
E queste ci rimandano indietro, come in un gioco di riflessi, lo stato d'animo appassionato e amorevole dell'autore che le osserva, se ne prende cura, le apprezza nonostante esse siano vecchie, abbandonate, diroccate. Probabilmente perché fin da bambino ne era rimasto attratto e affascinato ed è proprio la memoria dell'infanzia che le rende, ancora adesso, belle e vive.
LEGGETE BENGALA!
ISCRIVETEVI A BENGALA!
Ray Banhoff scrive cose che leggerete solo da lui, nella sua esplosiva newsletter che fa luce nella notte dei giorni tutti uguali. Editoriali umorali, libri, fotografie, scazzi, slanci, musica: tutta roba buona.
Abbiamo deciso che Mollette e Bengala sono cugine, per affinità, per simpatia, perché sì.
Quindi noi, cioè Davide e Jacopo, vi invitiamo a cliccare QUI e a seguire le scintille di Bengala.