SBRAAAAAANG!
di Francesco Paciaroni
LE GALLINE PENSIEROSE DI LUIGI MALERBA
di Jacopo Masini
Il mondo è un pollaio. E noi siamo, tra gli altri, i suoi attoniti abitanti.
Non so a voi, ma a me, proprio per via di questa specie di perplessità che ci attanaglia tutti a volte, quando mi capita di vedere un cane e un gatto per la strada, oppure una mucca o una lepre in un campo, o un uccello su una grondaia, mi viene da domandarmi: cosa penseranno di noi? Cioè, cosa penseranno vedendo noi esseri umani a piedi, in bicicletta o in macchina, sempre indaffarati, di corsa, coperti di strani abiti? Non credo otterremo mai la risposta e non so se Luigi Malerba si sia fatto le stesse domande quando ha scritto Le galline pensierose, ma mi piace pensare di sì. Per lo meno, deve aver pensato che il mondo è un pollaio, altrimenti non avrebbe scritto un libro del genere.
Luigi Malerba è stato – ed è ancora – uno dei più importanti, versatili e inventivi scrittori della letteratura italiana contemporanea. Negli anni '60 e '70, in particolare, era molto conosciuto e apprezzato anche all'estero, tradotto in numerosi paesi, e considerato un narratore capace di sovvertire le forme del romanzo e del racconto. E a ragione, considerando libri come La scoperta dell'alfabeto, il suo primo libro di racconti – una sorta di raccolta di favole realistiche, ambientate sull'Appennino emiliano, da cui proveniva –, oppure Il Pataffio – che sembra anticipare L'Armata Brancaleone –, o Il protagonista – in cui il narratore è il pene del tizio di cui si raccontano le vicende, un maniaco sessuale che vorrebbe fare senso con qualunque cosa, anche con una enorme balena imbalsamata che si trova in una piazza di Roma come fenomeno da baraccone, o con una statua antica –, o ancora Il serpente, Le rose imperiali – storie ambientate nella Cina antica –, o le piccole storie e favole di Storiette e Storiette tascabili, e potrei andare avanti, fino ai libri più recenti, ad esempio il bellissimo Fantasmi romani.
Ma Le galline pensierose, per me occupa un posto speciale nella sua produzione, perché lì dentro Malerba usa le galline e il pollaio – cioè noi e il mondo – per raccontare i vizi, le manie, le assurdità, le meschinerie e le illuminazioni di cui siamo capaci. E lo fa con oltre centocinquanta brevissimi racconti – ma proprio brevissimi, al massimo una decina di righe – che hanno per protagoniste le galline e i galli. Soprattutto le galline, e altri animali della campagna.
Ad esempio, una delle mie storie preferite fa così:
Una gallina un po’ incerta andava in giro per l’aia brontolando: Chi sono io? Chi sono io?” Le compagne si preoccuparono perché pensavano che fosse diventata matta, finché un giorno una le rispose: “Una cogliona”. La gallina un po’ incerta da quel giorno smise di vaneggiare.
Quando Malerba iniziò a scrivere queste piccole storie, ne parlò in un'intervista a Paolo Mauri e disse: '“Sto scrivendo delle storiette di pollaio, con galline protagoniste. A Orvieto, durante l’ultimo week-end. Ne ho scritte una ventina di getto. In città è più difficile scrivere favole: comunque le galline sono molto trascurate e ho deciso di riabilitarle”.
Nelle sue intenzioni, doveva trattarsi di un libro per bambini. Lo pubblicò Einaudi e ora è stato ripubblicato da Quodlibet, riportando il libro all'attenzione di tutti, cioè adulti e bambini. Perché, se per i bambini, nel gioco e negli scorrazzanti in giro per il cortile, capire che il mondo è un pollaio è più semplice, noi adulti, con l'andare del tempo, ci convinciamo che siamo persone serie, che viviamo in un posto serio, e ci dimentichiamo di essere invece come le galline di Malerba: una matta che rivendica il diritto, essendo matta, di poter essere un uomo, ad esempio Napoleone, o anche la statua di Napoleone; un gallo che cerca di fare le uova e non si capacita del fatto che le galline ci riescano e lui no; una gallina che si domanda come mai l'universo sia fatto così, per arrivare a formulare ipotesi azzardate; galline che pensano che il latino sia un animale; oppure galline che pensano di avere raggiunto la saggezza senza fare niente (una cosa che capita spesso, a dir la verità):
“Per diventare filosofa”, diceva una vecchia gallina che credeva di essere molto saggia, “non importa pensare a qualcosa, basta pensare anche a niente”. Lei si metteva in un angolo del pollaio e pensava a niente. Così, e non in altri modi, diceva di essere diventata una gallina filosofa.
Così, se non sapremo mai cosa pensano gli animali di noi, possiamo iniziare a pensare al pollaio nel quale ci dibattiamo, andando per l'aia a beccare, a litigare con le altre galline, a darci delle arie. E farlo leggendo un piccolo libro magnifico scritto da Luigi Malerba. Poi sorridere e provare un po' di conforto nella nostra comune stupidità, che è corroborante.
Gli animali, quando ci guardano, secondo me lo sanno.
La targhetta in peltro
di Davide Bregola
Com’è triste la prudenza! diceva qualcuno. Ancor più se si tratta d’arte. E’ con questa idea in testa che ho provato a scrivere qualcosa che mi è saltato in mente proprio oggi. Mi ha sempre colpito il fatto che tra persone pubbliche ci siano cognomi uguali. Che ne so, per esempio c'è un Carlo Lucarelli giallista e una Lucarelli opinionista e giornalista. Oppure un Manzoni artista, sì quello della “merda”, e un Manzoni scrittore, un Morandi cantante e Giorgio Morandi pittore, un Brizzi scrittore, un Brizzi storico e Salvatore Brizzi conferenziere alchimista e così via. La lista sarebbe lunghissima. Per esempio prima che Niccolò Ammaniti diventasse popolare come scrittore, conoscevo Massimo Ammaniti, uno dei più noti psicologi dell'età evolutiva e autore di libri per grandi case editrici. Ogni volta mi chiedevo che effetto dovesse fare a un personaggio popolare avere qualcuno altrettanto conosciuto che porta il proprio stesso cognome o addirittura lo stesso nome e cognome. Vedi il poeta Giuseppe Conte che per lo sgomento è diventato Youssuf Conte perché un politico omonimo è arrivato alla ribalta in un batter d’occhio. Io sinceramente non sarei per nulla contento di sapere che uno famoso porta il mio stesso nome, ma tant’è. Mozzi, il medico della dieta del gruppo sanguigno docet e quando vedevo in classifica le diete del Dott.Mozzi soffrivo per Giulio Mozzi scrittore. Così, d'emblée, mi ero avvicinato lemme lemme alla raccolta di racconti Fango di Ammaniti e alla stroncatura che ne fece, a suo tempo, Silvia Ballestra sulle pagine del settimanale Cuore. Doveva essere, così ora nei miei ricordi, una recensione lunghissima, a tutta pagina con la copertina al centro. Era il 1996 e al tempo il libro era pubblicato con carta Acquerello opaca per Mondadori, mentre ora è plastificato per Einaudi. La Ballestra rimarcava il fatto che quella raccolta avesse uno stile fasullo e quell’idioletto “romanesco” era finto come le risate americane dei programmi tv. Proprio una stroncatura bella e buona. Adesso stroncature del genere non se ne fanno più, e infatti non mi venne voglia di leggerlo subito, proprio a partire da quell’articolo, così come oggi non mi viene voglia di leggere subito un libro a partire da una buona recensione perché ci vedo spesso l’impostura. Allora come faccio? Aspetto un po’ poi vado a vedere i commenti su Amazon e su IBS e mi faccio un’idea più obiettiva perché ci scrivono i lettori veri. Appena lessi la recensione che la Ballestra fece, sempre su Cuore, di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, mi fece correre alla Feltrinelli di Bologna, quella di fronte alle due torri, a vedere il plico di Jack Frusciante messo lì in terra, nella sezione novità, poco distante dall’ingresso. Erano libri dalla copertina personalizzata. Ognuno diverso dall’altro, e io ne comprai uno dove c’era disegnato con l’Uniposca indelebile una specie di draghetto arrabbiato con la lingua de fòri. Ecco, mi sa che quel libro lo lessi tutto d’un fiato, mentre Fango impiegai un po’ prima di comperarlo. E lo presi principalmente perché dovetti presentare l’autore. Faccio questa associazione Brizzi-Ammaniti perché a dispetto di quel che credono in tanti, il vero esordio narrativo di Ammaniti coincise con l’uscita del libro di Brizzi: 1994. Si trattava di un romanzo molto strano, intitolato Branchie uscito per una piccola casa editrice chiamata Ediesse. Il protagonista, gravemente malato, si salva perché respira in una specie di acquarione grazie alle branchie che gli crescono inspiegabilmente. Acquistai la copia proprio in quell’anno perché al tempo volevo capire cosa facevano e cosa scrivevano i miei coetanei o giù di lì. Non andavo a rovistare nel maistream, ma andavo alla ricerca di piccolissime realtà: Moby Dick, Transeuropa, Castelvecchi, Fernandel, erano le case editrici alle quali prestavo maggior attenzione. Ediesse era una casa editrice romana molto piccola in cui c’entrava, per un motivo o per l’altro, la CGIL. Oltre a pubblicare libri di sociologia del lavoro, testimonianze sindacali, nei primi anni ’90 si era messa a pubblicare anche giovani e giovanissimi autori. Memorabile rimane l’esordio di Giovanni Paris intitolato Marmitte dove il sottotitolo era tutto un programma: “aspettando il motorino con cattiveria”. Penso fosse uno sfogo adolescenziale, ma la freschezza di quel libretto poteva fare il paio con l’Alex protagonista di Brizzi che invece andava in vespa e nessuno mi toglierà dalla testa che 50 Special dei LunaPop era ispirata dal libro di Enrik Breeze. Marmitte e Jack Frusciante: una lotta intestina tra due adolescenti della borghesia romana e bolognese. Fatto sta che a un certo punto dovevo contattare Ammaniti per un dirigente cultura emiliano romagnolo. Voleva a tutti i costi in città l’autore che nel corso degli anni, dopo due libri passati quasi inosservati, arriva a vendere milioni di copie coi libri successivi quali Io non ho paura, Ti prendo e ti porto via, Come dio comanda e per un certo periodo sembrava quasi lo Stephen King italiano. Non c’era verso, questo dirigente cultura voleva fare una bella presentazione con l’autore di punta degli Anni Zero. Complici i film, non proprio memorabili, tratti dai suoi libri. Chi si ricorda il grandissimo Gianluca Grignani protagonista del film Branchie? Grazie al fatto che Ammaniti all’epoca era spesso sui giornali e ogni tanto in televisione, assessorati, dirigenti culturali, direttori di biblioteca, prof. di Italiano in pensione che occupano per qualche anno una posizione politica, erano interessati all’autore ppopppolare! Anche perché spesso i suoi testi venivano antologizzati sui libri di testo. Insomma io la mail di Ammaniti l’avevo perché un giorno mi arrivò la comunicazione da una casa editrice in cui mise leggibile tutta la lista delle persone a cui aveva inviato una copertina e la sinossi di un certo libro. Io scrivevo per Rolling Stone e per questo motivo tutte le case editrici mi mandavano notizie di libri in uscita. Di solito erano tutte newsletter con gli indirizzi in “Copia nascosta”, ma quella volta, forse per distrazione, erano tutti in chiaro e in mezzo alle centinaia di mail c’era anche quella di Ammaniti. Gli scrissi due o tre volte ma non rispondeva. Così dovetti aguzzare l’ingegno. Qualche mese prima di quei tentativi avevo conosciuto a Pordenonelegge Kylee Doust, una agente letteraria originaria dell’Australia, rossa con gli occhi verdi che mi colpì, oltre che per la grazia, anche per la proprietà di linguaggio con la lingua di Dante. Registrai nella testa i nomi che mi fece quando le chiesi quali fossero gli autori da lei rappresentati. Tra questi c’era anche Niccolò Ammaniti. Era la sua agente. La contattai, lei contattò Ammaniti ma sembrava non si muovesse nulla. Dirigente cultura voleva qualcosa di concreto, ma non si muoveva foglia. Mi sentivo con Kylee Doust e mi spostava di settimana in settimana la risposta. Dirigente cultura ancora lì a sbattere freneticamente la mano sul ginocchio che vibrava. Sembrava tutto impossibile. Voleva Ammaniti. Ammaniti irreperibile, Ammaniti straimpegnato, Ammaniti irraggiungibile. Io passavo le informazioni dell’agente a chi di dovere ma non se ne venivamo fuori. Una gatta da pelare. Una gatta mai vista prima. Irraggiungibile proprio come Stephen King, mannaggialamaronna. Poi Kylee mi fece capire che uno spiraglio ci poteva essere, però bisognava vedere, valutare, insomma, bisognava dare all’autore qualcosina per il disturbo. Tutto lecito, per carità; il famigerato gettonedipresenza poteva liberare l’autore da qualche gravoso impegno. Il problema degli scrittori e delle scrittrici molto famos* sta nell’offerta. Non puoi dargli, che ne so, 500 euro, perché sarebbe volgare. O gli dai tanti soldi, e allora non sfiguri, o gli dici che devono venire gratis, e anche così non fai la figuraccia. La vera figura di merda la fai quando puoi pagare, ma poco poco. A quel punto meglio rinunciare perché 500 può essere offensivo. La gente famosa fa così: o tanto o niente. Lo dissi a Dirigente cultura e s’illuminò: “Non c’è problema. Gli diamo un premio alla carriera!” Io provavo a dire che i premi alla carriera li dài a uno scrittore anziano, a una scrittrice ottantenne, a un grande vecchio, ma non c’era verso. Premio alla carriera! Premio della città! Premio del premio per tre e quattordici. Insomma tirarono fuori 3000 euro più vitto e alloggio e spese del treno e Ammaniti apparve alla madonna ed era miracolosamente libero per il giorno in cui avevano stabilito di premiarlo. Ammaniti di qua, Ammaniti di là, 3000 euro netti, come premio, significa soldi detassati. Come fatturare 6000 euro lorde, diciamo. Per chi non bazzica con partite Iva e liberi professionisti, e anche per chi non lo sapesse, i premi in denaro non sono sottoposti a tasse e non fanno cumulo nel fatturato. Manna! Mi trovai così a mettermi d’accordo con Kylee Doust per incontrare Niccolò Ammaniti e fare una serata in suo onore per una sorta di premio alla carriera o qualcosa del genere. Dirigente cultura, felice, fece preparare una targhetta personalizzata in peltro. A questo punto del ritratto vorrei esprimere il mio entusiasmo per la bellezza e la classe delle agenti letterarie: la contessa Agnese Incisa, dotata di un’innata raffinatezza artistica. Ricordo la sua espressione aristocratica a Torino e le sue foto in montagna con Natalia, Giulio, Italo… Kylee Doust già citata con una certa insistenza. Ancora i suoi occhi verdi brillano come foglie fresche di salice dentro alla mia retina. Poi la filologa Benedetta Centovalli, col caschetto nero che attrae e inquieta. Una che se vede indossare un capo di pregio a qualcun altro sa esattamente di che stilista si tratta. Così a occhio e croce ama la sartorialità giapponese. Intelligenti bellezze che hanno nella loro scuderia brutti ceffi della Repubblica delle Lettere. Tutto ciò mi ammalia e mi stordisce. Bellissima e colta pure Cristina Tizian_literaryeditor. Classe e grazia. Così quel giorno avrei dovuto aspettare Niccolò Ammaniti. Arrivava da Roma, biglietto prima classe. Si fermava a Modena e in stazione sarebbe andato un incaricato del Comune. Io in quel periodo ero incasinatissimo. Avevo la testa da un’altra parte. Così mentre aspettavo Ammaniti sapevo già di avere una stanza di hotel per due giorni a mia disposizione e una ragazza che sarebbe arrivata per ascoltare me, più che per l’autore di Io non ho paura. Ammaniti arrivò con uno zainetto. Tutto vestito di marroni diversi. Me lo ricordavo nell’iconologia classica di una foto scattata ai tempi dei Cannibali, con la testa leggermente reclinata, un po’ di barba, capelli corti, sopracciglia folte corrugate, sguardo indagatore e torvo. Era il periodo in cui durante le interviste confessava di aver intrapreso studi di biologia per poi abbandonarli. Invece di studiare scriveva. Mi colpì una sua intervista in cui mentì al padre dicendo che stava scrivendo la tesi e invece scrisse Branchie per la casa editrice della vecchia CGIL. Quando portò il libro al padre Massimo Ammaniti, noto psicologo, come si diceva poco sopra, egli lanciò il libro fuori dalla finestra e cacciò di casa il giovane autore che rimase fuori per sei lunghissimi mesi. Erano aneddoti che al tempo mi colpivano proprio perché ero giovane, studiavo pure io, ma perdevo un fracco di tempo in inutili reverie provinciali. Mi sentivo dannatamente incompreso da famiglia e società. Mi faceva schifo tutto, tranne l’arte. Sembrava un periodo molto fertile quello là. Ma non per me. Tarantino aveva girato il film Pulp fiction, Culicchia con Tutti giù per terra, i Nirvana e i Sonic Youth venivano in Italia a suonare, c’era ancora tanta gente interessante viva e vegeta. Uno tra tutti: Tabucchi. Due tra tutti: Volponi e Rigoni Stern. Si sentiva ancora l’eco di Fellini, Moravia, Calvino…Pareva un mondo fatato, col senno del poi. Ma era anche il periodo in cui Berlusconi esordì a reti Mediaset unificate dicendo: “L’Italia è il paese che amo”. Altra storia. Invece il giorno della presentazione, moltissimi anni dopo, avevano messo Ammaniti a dormire in un hotel più figo e confortevole del mio. Non perché fosse lui la star, cioè anche per quello, ma io quando andavo a fare presentazioni in quel posto preferivo alloggiare in un albergo più umile, più defilato, meno appariscente. Era un hotel a gestione famigliare, dove una vecchietta striminzita e allegra preparava il caffè con la moka e la torta per la colazione usciva tiepida dal forno della sua cucina. L’altro era un albergo di catena, quelli che la gente spaccia per alberghi “lussuosi” solo perché hai la wi-fi in camera e giù in sala c’è the rich international breakfast buffet. Ma che m’importava a me di quella robaccia secca e quei succhi fatti con acqua e polverina? A me interessava il silenzio e il caffè con la moka della vecchina. E che nessuno ficcasse il naso nella mia vita, perché c’avevo un demone e dovevo assecondarlo. Così passai a prendere Ammaniti e iniziammo a camminare per vie laterali della città che ci aveva ospitato. La sera saremmo dovuti andare a teatro per la presentazione. Ci siamo fermati davanti a una gelateria, ma siccome entrambi non avevamo pranzato, entrammo prima in un bar a prendere un panino farcito, un caffettino e poi gelatone. Io cono, lui coppetta. Nel frattempo parlavamo. Mi disse che sua moglie faceva l’attrice e lavorava alla serie R.I.S, mi pare di ricordare fosse molto entusiasta di serie tv e video game. Parlammo soprattutto di casse audio di alta qualità perché mi confessò di essere un appassionato di stereo Hi-fi e lì nei dintorni del modenese e del reggiano c’era un esperto costruttore di casse per l’alta fedeltà. Niccolò c’era stato poche settimane prima per fare acquisti. Quanto quanto quanto hanno gravitato attorno a me i libri di Ammaniti. Sempre lì a comprarli e sempre lì ad aspettare chissà quale evento per iniziare a leggerli. E’ che ero pieno di preconcetti e ogni volta ero prevenuto, a partire dal fatto che faceva parte del gruppo dei cannibali e a me quell’etichetta proprio non andava a genio perché io, stando a un vecchio articolo sui giovani scrittori dell’Espresso, appartenevo invece alla categoria letteraria dei vegetariani. Poi una volta spedii un mio romanzo a Baldini&Castoldi perché c’era Patricia Chendi in redazione. Era un romanzo sbagliato, ora lo so, però alla Chendi volevo spedire qualcosa perché Baldini&Castoldi era una bella casa editrice. Diciamo che era bella finché ci fu Dalai. Era lui il genio dell’editoria. Penso che la Chendi mi sopravvalutasse, o forse le ero solo simpatico. Mi sentivo in dovere di mandarle qualcosa, così le feci avere quella roba imperfetta su cui c’era da lavorare con un buon editor. Magari lei poteva fare al caso mio. Avevo un faldone di storie chiamato Angurie. Con la Chendi stavamo in contatto, ogni tanto ci si mandava una mail. Ci vedemmo a Mantova in occasione di un Festival della letteratura, parlammo del libro. Arrivò il momento di rivedersi per parlare di quello strano ircocervo, ma stavolta mi invitò a Milano alla Baldini&Castoldi-Dalai. Patricia Chendi mi parlò del romanzo. Io sapevo che il punto debole era la trama, perché per me la trama non era necessaria. Per me erano fondamentali la storia, i personaggi, lo stile. La storia non si fondava su un intreccio, perché a mio avviso l’ambientazione era la trama. Ero in redazione a parlare con lei, scendemmo per una specie di scala a chiocciola e lungo le scale incrociammo Dalai in persona che salutò garrulo e mi strinse la mano. Patricia Chendi gli disse chi ero, e perché ero là. Penso, in effetti, che alla fine nemmeno mi vide realmente perché passai tra Dalai e il corrimano in ferro come fossi trasparente. Ne ha viste tante Dalai, e poi aveva tra le mani la Tamaro, Brizzi, Faletti. Dicevano che solo Faletti con le sue vendite manteneva casa editrice e personale. Patricia mi spiegò tutti i punti deboli di Angurie e dal suo punto di vista aveva ragione. Aveva ragione perché un libro deve pure vendere e non è solo uno sfoggio, un esercizio di bravura, una sperimentazione. Ecco vedi, mi disse, tu devi fare un po’ come Ammaniti. Lui nel suo libro Come dio comanda racconta la pianura, come fai tu con Angurie, ma costruisce anche una trama. Tu dovresti prendere il suo libro, prendere Angurie e capire come poterti avvicinare a quel romanzo. Io invece non ci stavo dentro. Non avrei mai sopportato questo inizio di romanzo alla Ammaniti: «Svegliati! Svegliati, cazzo!» Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine. Una mano gli strinse la gola. «Svegliati! Lo sai che devi dormire con un occhio solo. E’ nel sonno che t’inculano.» Ecco, io un inizio così, con quel linguaggio proprio non riesco. Pagine e pagine di dialogo mi fanno pensare: “Vabbé senti…fai una sceneggiatura, se proprio vuoi fare paginate di dialogo tra i personaggi per arrivare a fare 350 pagine. Invece di ammorbarmi con un romanzo fammi una sceneggiatura no?” Per me è troppo. Non ce la faccio. Non ce l’avrei fatta a prendere come esempio un libro di Ammaniti. Anche perché lo stile è quello che io chiamo “traducese”, cioè l’inglese americano tradotto in italiano quando si fanno queste traduzioni di libri stranieri. Diversi scrittori italiani scrivono in “traducese” più o meno consapevolmente. Non rientra nei miei gusti e nel mio senso estetico. Come dio comanda nel 1996 lo acquistai, provai a leggere ma non faceva al caso mio. Per provare a trarne profitto e fare diventare Angurie qualcosa con un intreccio e tanto dialogo non dovevo essere me. Che ne so, un altro lo avrebbe fatto, ma io non riesco. Come recita la bandella del suo libro? «Un romanzo potente, una sinfonia in cui la più cupa tragedia e lo humour più scatenato si fondono dando vita a un grande affresco sociale e scandendo il ritmo di una storia che ci tiene senza fiato fino all’ultima pagina.» Nooooooooo, no, non voglio lasciare nessuno senza fiato! Nooooooo! Non voglio fare affreschi, non voglio essere sociale! Niente Baldini&Castoldi-Dalai, dunque. Soprattutto non volevo furbate. Logico che se mi fossi messo lì a testa bassa ce l’avrei fatta a snaturare tutto. Non è così difficile prendere un modello e copiarne la struttura, semplificare lo stile, farlo diventare basico, un po’ “traducese”. Ma io non ce la faccio a stare alle regole, non ce l’ho mai fatta nemmeno da bambino, anche a scapito del mio rendimento scolastico. A costo di sembrare stupido o poco intelligente, guarda… Mentre mangiavamo il gelato ci mettemmo d’accordo sulla rava e la fava da dire durante la presentazione. Nel frattemp arrivò anche Dirigente cultura e la scaletta era chiara per tutti. Sul palco avrei fatto una breve presentazione biografica dell’autore, successivamente sarei sceso dal palco e Ammaniti avrebbe deciso di fare un reading prendendo un suo racconto -di cui non ricordo niente- pubblicato per il mensile Rolling stone. Solo tanto dialogo tra personaggi e qualche spappolamento. Penso volesse sembrare un racconto della serie “enigma della camera chiusa” ma non me lo ricordo perché ero molto distratto dalla gente in teatro. Tanta. Finita la lettura ancora un po’ di rava e fava e subito dopo premiazione da parte di un rappresentante politico e un esponente del mondo universitario che desse il placet per il riconoscimento tramutatosi in premio speciale della giuria per il libro Che la festa cominci. Consegna di targhetta e bustona con all’interno l’assegno da 3000 pioppe. Strette di mano e via andare. Filò tutto liscio, scaletta eseguita, grandi sorrisi. Io ero una sorta di presentatore con microfono e pacche sulla spalla incorporate. Spettava a me tenere i tempi e il ritmo della serata che non poteva durare più di un’ora perché successivamente, sempre lì in teatro, ci sarebbe stato uno spettacolo con il fumettista GIPI tratto dal suo libro S. Mentre parlavamo, d’un tratto tirai fuori dal cilindro Branchie nella vecchia edizione Ediesse.
Me la portai da casa. L’autore rimase colpito perché quel piccolo colpo di scena l’avevo riservato alla presentazione iniziale. Non anticipai nulla mentre parlavamo di attrici, gelati, casse acustiche e scalette. Niente. Funziona sempre uscire un po’ dal seminato per creare un effetto realtà. Altrimenti saremmo stati all’interno di una dinamica troppo concordata, prevedibile, ingessata. Si ruppe all’istante il ghiaccio. L’effetto sorpresa funzionò. «Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Nulla, neppure una reminiscenza.» Direbbe Aldo Busi, col suo noto inizio tratto da Seminario sulla gioventù. In effetti della gioventù non serbavo nessun dolore, ma un noto mal di gola mi aveva obbligato ad avvolgere il collo con un enorme foulard verde. Si vede una foto in cui io ho il microfono in mano, Ammaniti sta prendendo la targhetta in peltro dalle mani del professore e il sindaco gli sta stringendo la mano. Tutto in un istante, poco dopo la lettura della motivazione del premio eseguita dall’accademico: And de vinner is…e via andare. Ma bisognava sbrigarsi perché dopo c’era GIPI. Via uno sotto un altro. Applausi, saluti, applausi, saluti, applausi. Tornammo dietro le quinte, ma gli applausi continuarono. Così feci la mia solita buffonata: uscii col microfono in mano e mentre c’era lo scroscio urlai di nuovo: “Signore e signori: Niccolò Ammaniti! L’autore fu costretto a uscire di nuovo e a inchinarsi come fanno gli attori consumati. Recentemente l’ho fatto anche con Gad Lerner. Funziona sempre perché aumentano gli applausi per qualche istante e repentinamente scemano. Lerner però aveva capito che era una buffonata da calcatore compulsivo di scene (di provincia) e mi disse: “Ma che è? Mica sono Vanda Osiris.” Mi aveva beccato, ma giuro che è stato l’unico a farmelo notare. Altri si pavoneggiano sentendo rimbombare il proprio nome tra gli applausi. Ammaniti stette al gioco. Aveva con sé la targhetta in peltro foderata di blu e la busta con l’assegno. Che gliene fregava a lui! Cambiando discorso (faccina che ride), dopo gli applausi e tutto il resto, con Ammaniti ci siamo persi di vista immediatamente. Un po’ perché io avevo altro a cui pensare, un po’ perché secondo me voleva sgattaiolare perché era in giro dalla mattina e magari, che ne so, voleva stare per i fatti suoi. A me succede, per cui immagino possa accadere anche agli altri. Appena in tempo per stringerci la mano all’americana, cioè con quel gesto in cui chiudi la mano dell’altro col pollice e le altre dita invece sono unite. Sì avete capito, dài, all’americana come nei film o come fanno i calciatori in televisione. Ciao, ciao. Bravo, bene, un saluto. Poi più visto. Io, lì a teatro, devo stare nei paraggi, perché GIPI inizia lo spettacolo con le maschere di cuoio dell’artista Ferdinando Falossi, e siccome sono molto interessato al teatro di figura e GIPI l’ho fortemente voluto io, voglio stare lì a guardare. GIPI lo seguivo dai tempi di Cuore e poi lo seguivo dal suo blog con tutti i cortometraggi assurdi e bellissimi che faceva. Tac, tac, buio in sala, GIPI recita, lo spettacolo va avanti poi finisce. Anche qui teatro pieno. Saluti e abbracci. Sgomberare, sgomberare. Così ci si ritrova con le luci in sala, dopo tutti gli spettacoli, a cercare di trarre un po’ di conclusioni. E’ bello questo momento, perché è andato tutto molto bene. Si vedono le facce soddisfatte di chi ha preso parte al progetto, si vedono le facce soddisfatte delle maestranze, degli addetti ai suoni, delle persone coinvolte. Quella luce tenue è rilassante. GIPI e gli attori si cambiano poi vanno a cena. Funziona tutto come se l’universo fosse elegante. Chissà se c’è un filo lungo miliardi di anni, o sono solo sacrosante pulsioni mortali. Arriva una delle maschere che era in galleria. Mi cerca con lo sguardo e s’avvicina. “Abbiamo trovato questo nel primo anello.” Mi porge una specie di cartellina blu in similpelle. La apro. E’ la targa in peltro lasciata per la premiazione ad Ammaniti appena un’ora prima. L’aveva già persa. L’aveva già abbandonata. L’aveva già dimenticata. L’aveva erroneamente posata. L’aveva volutamente rifiutata. L’aveva volutamente ripudiata. L’aveva casualmente trascurata. L’aveva respinta. L’aveva…chissà. Cascasse il mondo, il lunedi successivo Dirigente cultura imbustò la targa in peltro con la scritta “Premio speciale della giuria per Niccolò Ammaniti”, scrisse l’indirizzo di casa dello scrittore e inviò. Mi piace pensare che in mezzo ai libri e alle costosissime casse hi-fi, in qualche angolo del loft dello scrittore di Io non ho paura, campeggia una targa in peltro conservata in una custodia di finta pelle blu.
MATRIMONIO A PRIMA VISTA ITALIA: VERITÀ CORROBORATA DALLA LEGGE O SPETTACOLARIZZAZIONE? TENTATIVO DI APPROCCIO RAGIONATO, TRA GUY DEBORD E LA MIA COLLEGA CHE ME NE PARLÒ LA PRIMA VOLTA
di Elisa Baldini
Una volta una mia collega, parlando del fatto che il divano e la televisione le erano spesso sottratti da marito e figliole, disse che c’era una sola occasione settimanale per la quale esigeva il silenzio assoluto e pretendeva una stanza tutta per sé: la sera in cui in televisione davano il suo programma preferito: Matrimonio a prima vista Italia. Io non avevo Sky e non sapevo cosa fosse. È un programma dove della gente si sposa senza conoscersi, mi dissero. Mi ricordo che, visto che da poco mi ero anche io sposata e nonostante avessi ridotto al minimo tutte le questioni per me pallose che di solito si fanno, non era mica una scherzo: si fecero quelle famose pubblicazioni, si andò in comune, si firmò fogli etc. Sollevai quindi tutta una serie di perplessità: ma questi si sposano davvero davvero, cioè fatemi capire, la questione contrattualistica è portata avanti al 100%? Mi venne risposto un po’ distrattamente che sì, certo, c’era pure un sindaco o non so che, ma avevano un periodo di tempo per rodarsi. Come una breve convivenza, quindi, dissi. Sì, stanno insieme un po’ e poi dopo un tot di tempo confermano o meno il matrimonio. E POI? E poi basta, le mie colleghe stavano già parlando d’altro, forse proprio dei partecipanti; io non ci capivo una mazza, Sky non ce l’avevo e mi rodeva anche un po’, quindi finii di mangiare, voltai il culo e a Matrimonio a prima vista Italia chi ci pensò più.
Non ho io visto Elisa altri programmi spazzatura in questi anni? Altroché se ne ho visti. Visto che i gangli del mio cervello a volte tendono a incatricchiarsi come i capelli in una spazzola comprata al mercato, quando Real Time piombò nelle nostre vite, ipnotizzarmi di fronte a quelli che se non puliscono tutto a dente di bocca gli viene una crisi di nervi oppure appassionarmi alle mirabolanti avventure di uno che ha la casa così pigiata di roba che non ci entra più nemmeno un grissino e uno di quelli che se non pulisce a dente di bocca va nei matti lo ha convinto, in un circuito meta testuale di risanamento reciproco, a buttare via due o tre scatolate di ciarpame, mi faceva sentire, talvolta, più leggera anche a me. Poi è arrivato tutto il resto, e allora Real Time è diventato la televisione, e la televisione, a parte casi rarissimi, io non la guardo più, per il semplice fatto che oggi posso vivere il lusso di rimanere stravaccata sul divano e, affidandomi solo ad un telecomando meraviglioso con tutti i tastini con i nomi delle piattaforme, posso iniziare una cosa quando voglio io. Quindi in Matrimonio a prima vista non ci ero più incappata. Per un periodo mettevo il 31 per vedere se il dottor Nowzaradan riusciva almeno una volta a farne dimagrire e tornare normale 1 su 100.000, ma poi uno è addirittura morto, mi ricordo anche il nome: Sean. Ma stiamo scherzando? O non dovevo io sciacquarmi il cervello? O non dovevo io essere consolata vedendo gli altri migliorare? Se volevo vedere una catastrofe mettevo un film di Haneke e per lo meno pativo per motivi artistici, e, tra l’altro, ne potevo parlare senza sprecare non so quante cazzo di battute nel tentativo vergognosamente inutile di giustificarmi, come ho fatto fino ad ora. Insomma, riprendendo il filo: quest’anno una mia amica mi dice che sul 31 sta per iniziare una trasmissione idiota e bellissima al contempo. O non era Matrimonio a prima vista Italia! Io inizialmente sono scettica, ma neanche a dirlo, mi aggancio a questa carovana con tutte le mie energie. Per tenere fede a quella promessa di mutua assistenza nei momenti cruciali della vita fatta di fronte al sindaco di Montale anni fa, coinvolgo mio marito che un po’ smadonna, poi capitola, confidando sulla santissima certezza che sul divano ci si può anche fare delle bellissime dormite. Matrimonio a prima vista Italia inizia, e, assistiamo alla spiegazione delle regole della trasmissione ovvero di quello che viene definito l’ESPERIMENTO SCIENTIFICO: un team di esperti (un sociologo che per me assomiglia a Godard, una sessuologa truccata di arancione, e il coach motivazionale Favaretto) ha messo accanto fotografie di gente sopra a dei pannelli di sughero giganteschi facendo probabilmente degli accostamenti cromatici per vedere quali esseri umani stavano meglio accanto a seconda di come erano vestiti il giorno in cui avevano fatto la foto. L’equipe ha quindi deciso per consonanza cromatica? No, ha studiato, pescando da fascicoli ciclostilati composti da una pagina scritta a carattere 18 con interlinea 2 le affinità degli scoppiati (inteso come non in coppia, non fraintendiamo) assemblandoli seguendo l’assunto che “gli opposti si attraggono” oppure “la regola della compensazione”, poi li hanno chiamati dall’oggi al domani e gli hanno detto, a questi poveri cristi che si sono andati a cercare meticolosamente la loro croce: “Oh, domani tu ti sposi.” E loro, ve lo giuro, quando li hanno chiamati, sembravano anche tantissimo stupiti. Ora voi ovviamente starete già pensando da molte righe: è tutto FINTO, si sa, è l’ABC della televisione, la dura legge dello spettacolo, il mondo dell’Entertainment. No, io ci voglio credere. Perché il giorno in cui all’Università mi hanno spiegato il concetto semiotico di sospensione dell’incredulità di Coleridge sono stata molto attenta, ma soprattutto perché io le regole dei giochi le prendo molto sul serio; io nella figura del NOTAIO ci credo fermamente, qui poi si sta parlando di matrimonio, c’è un sindaco che cita Pinocchio, la fanno lunga e pallottolosa, c’è anche il fotografo che gli fa l’album, hanno messo insieme un casino di per ridere. Assistiamo a scene straordinarie: la vigilia delle nozze, la paura, i ripensamenti, la consegna di regalini che anticipano l’identità del futuro coniuge, che fanno tutti schifissimo e quindi uno inizia già a prevedere il patatrac. Poi arriva il momento magico in cui gli occhi degli impavidi si incontrano per la prima volta davanti al banchetto dell’officiante e succedono cose davvero tragiche, tipo una poveraccia che si trova a singhiozzare non so esattamente quando (credo subito dopo averlo sposato/visto, perché ha ancora il vestito e trucco e parrucco quando vediamo il video) e dice: “MI FA IMPRESSIONE”. Come ti fa impressione? E rincara: “Non lo so, è vecchio, avrà dieci anni più di me. Non me l’aspettavo.” Poi si scopre che ha tipo 2 anni più di lei, e poveromo, s’è solo vestito un po’ all’antica, s’è pettinato i capelli all’indietro, e lei invece si veste come nei manga giapponesi: ci credo ti sembra più vecchio! Si vede che qui hanno scelto con la regola della compensazione, invece che con quella degli accostamenti cromatici, gli scienziati. Insomma, la sera della prima edizione di Matrimonio a prima vista Italia, che eccezionalmente propone allo spettatore 2 puntate invece di una sola ( a meno che tu non voglia fare anche Discovery+, e te lo vedi tutto di seguito come se fosse un film dell’orrore) io e mio marito si va a letto distrutti, disperati per questa gente con cui abbiamo già oramai empatizzato al 100%, come se questa cazzata enorme di sposarsi a caso si fosse fatta noi. Prima di addormentarci ci si abbraccia e io pronuncio queste parole: “Menomale noi prima di sposarci ci siamo conosciuti.”
Le settimane scorrono veloci e anche Matrimonio a Prima vista Italia: noi siamo sempre più appassionati, facciamo pronostici. Le puntate durano sempre, ci sembra, pochissimo, nonostante la pubblicità ci sia ogni tre secondi. Tutte le sante volte che finisce la puntata mio marito si dice convinto per almeno 1 minuto e mezzo a fare Discovery+ per vedere subito, porca puttana, come cavolo va a finire. Poi fortunatamente ritorna in se. Ma lo capisco, è effettivamente appassionante vedere come queste persone si sforzano di non farsi schifo a vicenda per un mese e ascoltare le parole degli esperti che hanno messo accanto le figurine, appuntarci le parole chiave di tutto questo circo Barnum che, ad essere sintetici, possiamo riassumere in: MURI DA ABBATTERE, METTERSI IN GIOCO, ESPERIMENTO e saltare dalla gioia sul divano tutte le volte che vengono pronunciate. Tra gli altri eventi degni di nota mi piace sottolineare il fatto che la sessuologa di sesso non parla mai, anzi. In un’epoca in cui non chiamare le cose con il proprio nome è oggettivamente retrogrado se non offensivo, si tocca l’argomento centrale, il FOCUS nodale della faccenda, facendo dei giri di parole degni di Houdini. La sessuologa parla di una vaghissima intimità, le donne quando si nomina questa intimità ridono isteriche. Gli uomini si danno di gomito, però, appena si incontrano, fanno a gara a chi, per primo, parole testuali di uno: “ha inzuppato il biscottino.” Inoltre ecco introdotto anche l’elemento psicomagia alla Jodorowsky, altro riferimento colto dopo il Pinocchio già citato dal sindaco: seguendo le istruzioni del coach Favaretto, una che ha senza dubbio un passato sofferto e tanti MURI DA ABBATTERE, per METTERSI DAVVERO IN GIOCO e far sì che l’ESPERIMENTO funzioni, deve scrivere su un foglio di carta tutti i suoi patemi d’animo, e poi darlo alle fiamme su un pratino rischiando di incendiare oltre al suo passato sofferto anche il suo paese natale, Mondovì, che io giuro non avevo mai sentito nominare, e giuro, per una coincidenza assurda che serve anche a ricordare che sono comunque una persona colta e perbene, qualche giorno dopo sento nominare tremila volte nell’audiolibro delle lettere di Cesare Pavese indirizzate a Fernanda Pivano/ Mondovì, la quale, poveraccia, sentendo le parole di Pavese, aveva mille turbe, e forse anche a lei, chissà, avrebbe giovato scriverle tutte in un fogliolino e darle alle fiamme. Ma all’epoca Jodorowsky ancora di psicomagia non aveva trattato, non so neanche se era ancora nato. Mondovì, invece, esisteva già.
Insomma, Matrimonio a prima vista Italia sembra vada a finire, è un bel po’ che questi dicono che la prossima volta dovranno decidere SE ANDARE AVANTI, che per me è: se confermare il matrimonio, firmare quei famosi fogli, ufficializzare quindi la cosa da un punto di vista legale, cazzo, me lo avete promesso fin dall’inizio, oppure restituire quegli anelli e andare ognuno per conto suo a fare quel cavolo che vi pare. Per non entrare del tutto in depressione e anche per smorzare l’ansia di questo momento, invitiamo a cena alcuni amici che hanno condiviso con noi, anche se a distanza, la visione dell’ESPERIMENTO. Addirittura io mi invento un GIOCO nel GIOCO: si vota, si scommette su chi dice sì e chi dice no, e poi, chi perde, paga la cena a chi vince. Quindi la posta in gioco si alza, quando c’è di mezzo del vile denaro. Non li faccio nemmeno iniziare a mangiare che dò a tutti un fogliolino dove scrivere senza essere guardati le loro votazioni, poi glielo faccio chiudere in quattro come nella cabina elettorale, e li metto tutti in una scatola di latta. Quindi si mangia, ci si scapicolla sul divano, si inventa anche un altro GIOCO nel GIOCO: shottino di vin santo per tutti ogni volta che qualcuno pronuncia le parole chiave: MURI, ESPERIMENTO, METTERSI IN GIOCO. Alla fine, manco a dirlo, siamo tutti ubriachi intinti. Vince una mia amica che è stata la più fiduciosa: aveva votato che due su tre coppie dicevano sì (che ripeto per me vuol dire firmiamo quei cavolo di fogli etc etc etc ). Addirittura questa volta COLPO DI SCENA ASSOLUTO FORSE MAI SUCCESSO (è da verificare) tutte le coppie dicono sì, rimaniamo sposati. Io trasecolo e mi girano le palle perché ho perso. Ero così convinta ed ho perso. Vabbè, me ne farò una ragione. Alla fine della puntata si scopre che ce n’è un’altra, la settimana dopo: la sibillina Matrimonio a prima vista Italia - E POI. E poi quando? Penso io. Sarà tipo dopo un anno, due; rivedremo questi disperati, che tra l’altro si sono sposati davvero tutti tra sconosciuti manco fossimo in India, e li aspetteremo al varco per ridere di loro e piangere con loro, ancora una volta, empatizzando, completamente immersi in quella incredulità dolcissima di quando alle cose ci credi, ma, per fortuna, accadono agli altri e non a te. E sono anche contenta: mi mancava Matrimonio a prima vista Italia, appena è finito. Quindi il mercoledì dopo io e mio marito siamo lì, a vedere come sono andati questi matrimoni. Ed invece scopro la Grande Mistificazione, l’inganno assoluto nascosto dietro questo E POI: questi sono stati “sposati” per non si sa bene quanto tempo, E POI, appunto, ritornano lì, non per dire come va, e se sono già andati a scannarsi davanti a degli avvocati VERI, ma per dire ancora una volta o sì o no, e se è NO, UDITE UDITE, restituiscono gli anelli. O come? O non avevate già deciso? Qui c’è stata una votazione, segreta per lo più, uno spoglio ufficiale, c’è una cena in ballo, che io dovrò contribuire a pagare perché ho perso. O come sì o no? Sì o no un cavolo! Il mio disappunto è grande almeno quanto quello di Godard che arriccia il naso tantissimo e si è anche pettinato per l’occasione. Favaretto chioccia, la sessuologa non lo so, comunque sono sicura che nemmeno questa volta parla apertamente della materia per la quale è stata chiamata in causa. Da tre matrimoni confermati se ne salva uno solo, che GUARDA CASO, era quello che avevo votato io, nel fogliolino che ho conservato per portarlo dal notaio. Quindi, mettiamo le cose in chiaro una volta per tutte: voi lo avete chiamato MATRIMONIO A PRIMA VISTA, avete spiegato le regole, ci avete fatto vedere quelle bacheche gigantesche con quelle figurine, gli anelli, e io vi ho creduto. Mi sono immaginata una burocrazia validante e giusta, perché se uno fa una cazzata sovrumana come quella di sposarsi con uno che vede per la prima volta solo di fronte al sindaco, allora è corretto per la popolazione italiana che guarda il 31 che questi poi, dopo aver detto sì, quei fogli li vadano a firmare. Inoltre, io avrei vinto, se voi vi foste spiegati meglio: mi avete fatto fare le votazioni. Anche io da parte mia quindi mi sono impegnata, ci ho investito del tempo a prendere delle penne e dei fogliolini e metterli in una scatola, e soprattutto mi sono impegnata economicamente a pagare una cena ad una mia amica che aveva vinto, ma ora non ne sono più tanto convinta, per colpa vostra, se ha vinto lei oppure ho vinto io e ci sta anche che si litighi. Quindi o il prossimo anno lo chiamate APPUNTAMENTO AL BUIO, cari creatori di questa strabiliante versione italiana di un format nato chissà dove, oppure richiamate quelli di prima che avevano detto sì, gli ridate gli anelli, gli fate firmare i fogli e poi li rispedite ad essere sposati a forza e a spregio come questi avevano deciso in maniera conscia, ragionata, prima che voi ci voleste lucrare sopra per un’altra settimana per vedere se qualcuno ci cascava e si abbonava a Discovery+. Perché io avevo perso, ma forse avevo vinto, e adesso sono confusa. E ci sta anche che un’amicizia finisca, per questa grandissima stronzata.
LE CAGATE MILLENIAL DI PIETRO MARRONE - 2
una striscia a fumetti per Mollette di Paolo Di Orazio
L’ERRORE
"Quando si passò dal legno al metallo si sbagliava molto meno. Ora carbonio, strumenti spaziali. I giocatori non sbagliano più e dal campo esce la variabile più affascinante della vita umana, l'errore".
(Gianni Clerici)
COME I BIT SOSTITUIRANNO LA LETTURA
di Ray Banhoff
dal numero 60 di BENGALA, la newsletter di Ray che dovete leggere perché sì
Fine dei 2000 erano tempi assurdi.
Si aspettava il nuovo millennio convinti che avrebbe inceppato tutti i pc.
Era un mondo di dvd, connessioni 56k, download e log in, primi log in.
C'era tutta sta musichetta eterea tipo Moby, questa fusione tra pop ed elettronica.
Questo presagio mistico di un futuro connesso in cui sparire nei bit.
Eravamo convinti non tanto che la realtà fosse Matrix, ma che noi tutti fossimo fighi come Neo di Matrix.
Voli low cost. Tutti volevamo un volo finalmente low cost.
Si andava a lavorare per Ryan Air.
L'aeroporto, finalmente, era alla portata di tutti. Anche dei ventenni.
Andavamo a Berlino. A Londra c'erano già stati tutti, si andava a scoprire Berlino. Al Tachless, prima ancora che diventasse di moda chiavare al Kitkat.
Solo dieci anni dopo sarebbero arrivati l'oriente, il Vietnam, le vacanze stile Anthony Bourdain.
A quel punto i dispositvi sono diventati centrali.
La gente non leggeva più i quotidiani in metro, ma giocava ad Angry Birds.
Eravamo convinti di diventare l'homo internet,
di cliogenizzarci, di congelarci, di far vivere le teste e basta come in Futurama,
di volare, di andare nello spazio.
Di scappare in qualche modo alla morte e a quelle schiere di fessi che ci hanno preceduto.
E invece lavoriamo tutto il giorno, abbiamo Di Maio ministro degli esteri
e una stampa nazionale che tutto sommato lo considera un politico che sta facendo esperienza.
Il supporto digitale ha segnato l'ingresso di una nuova tavoletta nella vita di tutti. Si legge su uno schermo in verticale così come migliaia di anni prima si scriveva su tavolette di creta.
La scrittura è iniziata coi sumeri, perché c'era bisogno di annotare quello che si spendeva e quello che si aveva nel magazzino. La scrittura aveva un fine pratico: annotare.
Nel tempo l'uomo ne ha fatto uno strumento potente, ha usato la parola per creare arte, per raccontare storie.
Le grandi rivoluzioni avvengono così, naturalmente. Non come la schwa che infatti è inposta e che usa solo chi vuole darsi un tono. Saviano del cazzo scrive sul Corriere con la scwha o come si scrive non lo so non lo voglio sapere...
Oggi la lettura non è più al centro del percorso evolutivo di un essere umano.
Anzi è come agli inizi della stampa. Manzoni nella sua mega biblioteca aveva quasi cinquanta (50) volumi e da tutti era considerato una sorta di ricco. Nessuno aveva cinquanta libri in casa. Le biblioteche chiedevano prestiti a lui...
CONTRO:
I libri faranno la fine dei DVD all'Euronics. Si passerà tra gli scaffali e si sceglieranno le copertine, ma dentro saranno vuoti, ci sarà un link a cui collegarsi per vivere "l'esperienza libro" da dentro, con audio, testi immersivi, realtà virtuale.
Noi, i lettori, saremo pochissimi, una enclave di vecchi saggi nutriti di sapere che quel sapere quasi non sanno a chi darlo.
PRO:
Centinaia di grafici, di sceneggiatori, di attori, di creativi, potrebbero ritrovare lavoro in una nuova industria editoriale virtuale, potrebbe nascere una fruizione del sapere completamente nuova.
L’ADDESTRATORE DI LICANTROPI /3
di Jacopo Masini e Maurizio Maletti
Uno strano fumetto in quattro parti, questa è la seconda.
La prima è QUI e la seconda QUI
TRE FOTO DI EUDORA WELTY
(CHE NON ERA SOLO UNA GRANDE SCRITTRICE)
ROBBABUONACHECIPIACE
Zavattini, un po’ di storia, i giornali, i film, i fumetti, gli ululati.
Nazisti, Squali, Hitler e Nietzsche.
I Metallica a Mosca nel 1991, primo gruppo a suonare in Russia dopo la caduta del Muro.
Maradona canta La mano de Dios nel documentario di Kusturica.
La Jetée di Chris Marker, il cortometraggio del 1962 che ha ispirato L’esercito delle 12 scimmie, ma questo è meglio.
LA POESIA DI ZAVATTINI CON CUI CHIUDIAMO MOLLETTE TUTTE LE VOLTE PERCHÉ SÌ
INVCEND
Invcend a vrés
büta föra in dialét
col co tgnü dentr’in italian.
As pöl di töt cm’al mé dialét,
i sö sigulament
da car di bö chi turna a cà sotsira.
Pr’esempi:
“Sul gnüatr’a saiòm
col ca tulóm e dóm.”
An gal mia dal tambör?
St’atar: “S’avdésu al me paés sota la nev
avresu esag na.
Duls: “Cun na panlada sul
piturà al ciel da Lusèra a Gualtér.”
Duls duls: “An segn drét in s’an foi
l’e la pianüra.”
Intim (a patés d’insonia):
“Sa pudés stricarm’in d’na parola
a durmirés.”
Ah cost, a l’o apena squacià:
“L’e pusibil sufri sensa capi.”
Vriv quel d’sucial?
“Unomas finalment cuntra tant casu.”
Avdi, töt as pöl dì.
Del.
Sré la porta.
Fat. Alura?
Spudèm in facia: an parli mia.
Parché?
A go paura.
Ad chi?
Dal melanövsentstantatri.
Cardì, sempar da po’
an’ag siöm mia
e a sg’abituóm.
*
INVECCHIANDO
Invecchiando vorrei
buttare fuori in dialetto,
certe cose tenute dentro in italiano.
Può dire tutto il mio dialetto,
coi suoi cigolamenti
da carro dei buoi che torna a casa sottosera.
Per esempio:
“Solo noi sappiamo
ciò che prendiamo e diamo”.
Non ha del tamburo?
Un’altra: ”Se vedeste il mio paese sotto la neve,
vorreste esserci nati.”
Dolce: “Con una pennellata sola
pitturare il cielo da Luzzara a Gualtieri.”
Dolce dolce: “Un segno dritto sul foglio
è la pianura.”
Intimo (soffro d’insonnia):
“Se potessi stringermi in una parola,
dormirei.”
Ah questo, proprio fresco:
“E possibile soffrire anche senza capire.”
Volete qualche cosa di sociale?
“Uniamoci finalmente contro tanto caso.”
Tutto si può dire, vedete.
Dillo.
Chiudete la porta.
Fatto. Allora?
Sputatemi in faccia, non parlo.
Perché?
Ho paura.
Di chi?
Del millenovecentosettantatré.
Credete, sempre più
non ci siamo
e ci si abitua.
(da Stricarm’ in d’na parola)