LE STORIE APPESE CON LE MOLLETTE
di Jacopo Masini
Se c’è una cosa brutta nella vita, secondo me, non è non averci provato, visto che non è possibile – neanche volendo – provare a fare tutto quello che ci passa per la testa o che ci sembra dovremmo provare a fare.
Se c’è una cosa brutta, invece, è non averci provato anche se avevamo molta voglia di farlo, solo perché qualcuno o qualcosa ci hanno suggerito di desistere visto non era il caso, non c’era uno scopo preciso, un obiettivo pragmaticamente stabilito, o – ancora peggio – perché avevamo intenzione di farlo in una maniera un po’ bislacca.
Non si tratta di essere iconoclasti o capricciosi, ma di farsi guidare dall’estro e dalla voglia di condividere dei desideri, delle voci, dei pezzi di mondo, in altre parole delle storie. E così è nata MOLLETTE, questa newsletter che Davide Bregola e io, fin da quando abbiamo iniziato a pensarci – anche se pensarci, forse, non è il verbo adatto, visto che abbiamo deciso di buttarci in questa avventura sull’onda di un entusiasmo immediato e per niente meditato – comunque, da quando abbiamo stabilito che ci andava di buttarci in questa avventura avevamo idea che dovesse fare alcune cose. Ad esempio, avere un nome che fosse diminutivo, o che suonasse tale.
Così, all’inizio, avevamo pensato a Pezzetti, perché dava l’idea della frammentarietà del mondo e delle nostre esperienza quotidiane, ma anche al piacere di poter scrivere di tutto senza un progetto, illuminando di volta in volta dettagli e cose diverse: i camioncini dei panini o dei polli allo spiedo, un libro trovato su una bancarella, un vecchio film, una immagine, una vignetta, le parole di qualcuno che abbiamo incontrato, qualunque cosa.
E così, Pezzetti è diventato per un paio di giorni Cosette, che suonava meglio, secondo noi, ma sono bastati un altro paio di giorni per far diventare MOLLETTE il nome ufficiale: suona come diminutivo, le mollette stanno al sole o sotto la pioggia, sorreggono foto, fogli, indumenti, costumi da bagno, disegni, di tutto. Le mollette sono evocative, portano via la testa con la fantasia dentro le stagioni, i luoghi, fanno riaffiorare parenti che abbiamo amato o odiato, oppure le nostre vite nelle case in cui abbiamo vissuto; le mollette sono di legno, di plastica colorata, consumate o nuovissime dentro le confezioni di plastica in cui le vendono al supermercato e, nella loro mollezza, fanno pensare a delle cuciture, ai punti di una lunghissima trama imprevista e sgangherata.
Così abbiamo deciso che come nome andava bene e per spiegarci ancora meglio, in una specie di gioco sinestetico e tutto immaginativo, abbiamo aggiunto un sottotitolo: STORIE STESE AD ASCIUGARE.
Le storie stese ad asciugare sono un po’ provvisorie, non sono stirate, hanno le pieghe e nessuno vi presta troppa attenzione – certo non come a certe storie firmate che si vedono nelle vetrine dei negozi alla moda –, a meno che non siano stese tutte insieme, come nei vicoli di città come Napoli, o Genova, o nei paesini in montagna o al mare, che allora tutti si fermano a fotografarle, pensando come sono belli tutti quei panni stesi, come sono disordinati, colorati, come sembrano vivi e senza progetto, con nessuno dentro a muoverli per fare qualcosa, con intenzioni, come se avesse sempre tutto un senso, quando invece arriviamo quasi sempre a fine giornata con l’idea che non sappiamo bene cos’è successo, in tutto quel muoversi e affannarsi.
Quindi, per non farla troppo lunga, io e Davide abbiamo pensato che fosse il caso di inventarci uno spazio perché sì. Di creare una newsletter in cui raccontare il mondo stendendo fili e mettendoci cose appese con le mollette ad asciugare perché sì, perché ci andava di farlo, senza un progetto, anzi guidati da un’unica intenzione certa: di non fare come si fa di solito, cioè col desiderio di fare bella figura. Qua le figure si osservano, si descrivono, magari si disegnano e si fotografano, ma non si fanno.
Sarebbe stato un peccato non farlo. Noi la pensiamo così.
IO POI CERTE COSE NON MI FIDO PIU’
di Davide Bregola
In questi ultimi due anni è passata tanta di quell’acqua sotto ai ponti che io a un certo punto non ho più acquistato nessun quotidiano né allegati annessi e connessi. A un certo punto mi aveva stancato tutto: recensioni, segnalazioni, reportage, approfondimenti…tutto mi sembrava fuori fase, tutto mi sembrava vecchio, già letto, abbastanza inutile. Non perché avessi perso fiducia nella cultura, questo no, ma perché il modo di raccontare mi sembrava Novecentesco e noi eravamo già nel 2020-2021-2022 e gli unici testi che potevo sentire vicini li leggevo altrove. Più e più volte mi sono detto: è strano però, io compro libri perché leggo delle recensioni anonime su Amazon anziché leggere, che ne so, un critico di TTL, o uno scrittore di Robinson o un saggista di Alias o di La Lettura o del Domenicale. Strano no?
E così ho approfondito sempre più, trovando belle cose magari sulla pagina Instagram di qualcuno o sul gruppo tal dei tali di FB o una dritta su uno dei mezzi più disparati, o un podcast utile e bello da ascoltare ma di cui nessuno parla. Intanto: questi nuovi divulgatori non sono mai quelli ufficiali, quelli mainstream, quelli appositamente creati per fare i divulgatori. No, non sono loro a darmi le dritte giuste. Sono altri, ma bisogna cercare magari digitando su Google e aggirando l’algoritmo. Bisogna diffidare oggi, e bisogna sentire dentro di sé che non si sta parlando, che ne so, dal 1996, ma si sta parlando dal III° millennio con strumenti del III° millennio. Diffidare. Sempre. Ecco allora che in questi anni, Ça va sans dire, non sono stato per niente di buonumore. Anzi sono sempre stato blandamente incazzato, blandamente deluso, blandamente irascibile. Ma tra una rottura di maroni e l’altra ho pure trovato la possibilità di conoscere nuove realtà. E’ così che a un certo punto ho fatto due cose: mi sono rifugiato nell’antico e ho cercato il nuovo. Ma non il nuovo tipo quello che sponsorizzano i suddetti giornali o i suddetti allegati culturali, bensì il nuovo-nuovo-nuovo. E l’ho cercato senza avere barriere o criteri o preconcetti o pregiudizi. Aperto. Nessun interesse personale. Totalmente aperto come uno che ha solo voglia di conoscere. Una spugna di cultura. Diffidente, certo, ma fiduciosa. Io che spendevo dai 3000 ai 5000 euro all’anno per materiali culturali vari: libri, CD, DVD, cinema, teatro, mostre, fumetti, Netflix, e-book, e tutto quel che potete immaginare, mi ero ripiegato in un tran-tran noioso. Dovevo rompere il maleficio! Dovevo fare qualcosa. Sì, ma cosa? Facebook usato come un blog degli Anni Zero fa schifo. Instagram usato come un album di fotografie della vecchia zia fa schifo. TikTok usato come una clip di MTV fa schifo. Ammettiamolo: tutti, nativi digitali compresi, spesso usano i social con la testa dell’uomo del passato. Invece è avvenuto un cambio di paradigma. E’avvenuto repentinamente. Diciamo che è avvenuto, convenzionalmente, nel febbraio 2020 o giù di lì. C’è chi se n’è accorto e sta cercando di fare qualcosa. C’è chi invece è rimasto lì e fa il post contro questo o quest’altro, mette la fotina su Instagram della copertina del proprio libro, fa vedere il proprio album vacanze su TIKTOK, dice che “andrà tutto bene” e che ritorneremo bravi e buoni come nel 2019. Balle. E’ libero di farlo, per carità, ma sono balle che ci si racconta. Non avranno mai più la mia attenzione. Io cerco il nuovo. Ma non il nuovo di cui si scrive su La Lettura, bensì il nuovo che c’è sulle strade, nei siti meno visitati, nei gruppi di lettura intelligenti. Abolite le cose convenzionali. Aboliti i brutti libri. Solo robbabuona!
A onor del vero c’è da dire che appena ci si informa un po’ si viene a conoscenza di App per ricevere gratuitamente tutti i quotidiani e i settimanali della stampa nazionale. Basta girare un po’ sul web per capire come fare a ricevere tutto senza spendere un euro. Per carità, io non ho mai scaricato nulla gratuitamente, però so come si fa e qualora mi venisse voglia di leggere un articolo de Il Foglio o de Il Manifesto, saprei esattamente dove andare a cercare. Au revoir.
UNA CAMU-RECENSIONE
di Roberto Camurri
L’altra sera sono andato a cena con Jacopo e Davide a Sabbioneta e ho mangiato il luccio che Jacopo aveva insistito e per farlo contento ho detto dai va bene, prendo anche io il luccio anche se a me fa cagare il luccio, che poi non è vero: pensavo mi facesse cagare il luccio, in realtà ho scoperto che mi piace e non lo avrei mai scoperto se Jacopo non avesse insistito dicendomi che ero una fighetta.
Mentre eravamo lì a cena, io Davide non l’avevo mai visto, mi raccontano che avevano intenzione di fondare questa newsletter che si sarebbe poi chiamata Mollette e che volevano fare una cosa diversa, un po’ anarchica e io mi dicevo che sono un democristiano – mia moglie mi ha regalato l’ultimo libro di Romano Prodi per farmi un piacere, per dire – e che non so cosa avrei potuto dire in una newsletter anarchica e loro parlavano e io iniziavo a essere preda del loro entusiasmo, di questa voglia di fare le cose senza un vero motivo e ci ho pensato mentre andavo a casa – saranno stati gli 883 che ascoltavamo – e ci ho pensato mentre guardavo – il giorno dopo – il film che vado adesso a dire, che è il motivo per cui sto scrivendo questa cosa.
Che poi, no, adesso non è mica il momento di dire che film è, perché prima devo aggiungere un paio di cose, una premessa, forse, anche se a me le premesse mi infastidiscono, che quando uno mi parla e mi dice ti faccio una premessa mi vien subito da pensare ma vai al punto che non ho mica tempo da perdere a star qui ad ascoltare le tue premesse balorde. Vabbè, il fatto è che io, quando guardo i film, non ci bado tanto a quelli che si chiamano i buchi della sceneggiatura, non me ne frega proprio niente. Per dire: uno dei film preferiti è Pacific Rim e lì c’è questo robot gigantesco che ad un certo punto usa una petroliera come mazza da baseball per uccidere un mostro nato dalle acque, e, ad esempio, mi viene sempre un gran nervoso quando sento qualcuno dire che Michael Bay è un regista che fa schifo, che i miei occhi, quando guardano un film di Michael Bay, son lì che si riempiono di estasi, di piacere infinito per quello che stanno vedendo, per quello che quell’uomo riesce a mettere a schermo e a realizzare che se io un giorno lo dovessi incontrare, Michael Bay, gli direi solo grazie, e quindi, niente, alla fine, io, quando mi guardo un film, mi metto lì sul divano, o sul letto, e mi guardo il film e basta, mica mi faccio troppe domande, spero solo che sia bello, che mi piaccia. E mi sono sempre piaciuti – secondo punto che ho bisogno di dire – i film che Guy Ritchie (regista/sceneggiatore) e Jason Statham (attore) hanno fatto insieme, li ho visti tutti e tre. Lock & Stock e The Snatch mi sono piaciuti da impazzire, ogni tanto quando sono giù di morale li riguardo e mi fanno stare meglio, non so perché. E quindi, tornando anche al discorso delle cose belle, il fatto che siano tornati insieme e abbiano fatto questo nuovo film che è un remake di un film francese, mi era partito l’entusiasmo e l’aspettativa e me lo sono visto appena ho potuto, patendo un po’ i giorni in cui non potevo con frasi dette dentro di me del tipo oh, no, stasera non riesco a guardarmi Wrath Of Man, che è, finalmente, il titolo del film.
E, ecco, a me frega questa cosa qui, l’aspettativa, l’entusiasmo, mica i buchi di sceneggiatura. Mi sono messo a guardare aspettandomi di trovare il film che volevo io, qualcosa di simile a Lock & Stock, a The Snatch: le battute, l’ironia, la violenza sempre un po’ comica, grottesca, portata oltre il limite, i colpi di scena improbabili, i cani che mangiano una pallina e fanno gnick gnick per tutto il film che ogni volta ridi anche se stanno per fare a pezzi un cadavere con un machete e c’è il cane che li fissa e fa gnick gnick e ridi, o almeno, io rido, non so mica se fa lo stesso effetto a tutti. E invece, porca miseria, cosa ti fanno Guy Ritchie e Jason Statham? Un film serissimo, drittissimo, che lo guardavo e pensavo, dai, adesso una battuta delle vostre, un siparietto che spezzi la tensione, e loro niente, non mi ascoltavano, andavano per la loro strada, facendo il film che volevano loro, fregandosene delle mie aspettative al riguardo, io, che sul divano ci rimanevo male, mi offendevo, e facevo la faccia del contrariato mentre spegnevo la televisione e me ne andavo a letto pensando a come avessero potuto tradirmi e mi svegliavo, poi, il giorno dopo e mi lavavo i denti e mi guardavo allo specchio e dicevo che per consolarmi della delusione ricevuta avrei voluto mangiare del luccio per pranzo e lì ho capito che, alla fine, non era mica colpa di Guy Ritchie o di Jason Sthatam, ho capito che la colpa era solo mia, che le aspettative hanno rotto i maroni, che se avessi guardato il film che volevano fare loro e non il film che mi aspettavo di vedere magari mi sarebbe piaciuto.
Camioncini
di Davide Bregola
I baracchini, i piadinari, i camioncini dei panini. Chioschi ambulanti, furgoncini della porchetta, semplici camioncini marci patocchi adibiti a tavola calda. Comunque li si voglia chiamare, sono uno di quei mezzi che si trovano ovunque in giro per le città.
Solo qui a Mantova ce ne sono una decina. Possono essere vecchi furgoncini FIAT od OM riattati con tutto il necessario per scaldare, friggere, raffreddare, bollire, bruciacchiare, cuocere, congelare. Si possono trovare lungo le strade più frequentate: nei pressi dello stadio di calcio, tra il centro commerciale e il palazzetto, vicino al cimitero monumentale, nelle vie delle puttane; arterie che da Mantova collegano il cremonese, il Veneto, il nulla e oltre verso una Waste land, direbbe Eliot, illimitata.
Di giorno sono chiusi e anonimi, ma appena scende il sole i gestori li aprono e accendono, solerti, tutte le lucine possibili e immaginabili facendoli sembrare grandi incubatori per esseri umani assetati e affamati. D’inverno sono ricoperti da cellophan trasparente, e così sembrano enormi postazioni di terapia intensiva per gente vorace di junk food; altre volte sembrano essere addobbi natalizi perpetui di cattivo gusto per gente come me che ama il sublime e lo cerca come un cane affamato. Filamenti colorati, lampadine illuminate a giorno, lampade al neon e tubi con all’interno vapori di mercurio. Piccoli centri massaggi a prezzi economici per stomaci abituati a gusti forti e poche pretese. Roba ghiacciata e via andare.
L’ultima volta ho preso una lattina di Fanta. Puzzava talmente di fritto che l’odore ha invaso l’abitacolo dell’auto. Ho dovuto aprire i finestrini e, appena a casa, lavarmi bene le mani che olezzavano di secoli d’olio rosolato e bollente. Uno schifo, ma che bellezza! Due di questi baracchini sono gestiti da personale orientale, un altro da due ragazzi dell’Est, un altro ancora da un italiano e una cinese. La bombolona blu di gas fuori dal veicolo. Qualche cavo elettrico attaccato a una centralina. Generatori a nafta e compressori. Pneumatici spompati. Anni e anni di plateatico, licenze e controlli ASST. Aperti tutta notte, anche durante il lockdown si poteva passare per un birrozzo e una piadina-prosciutto-e-fontina. Il vero simbolo di una provincia sfondata. Merci camioncini. Merci beaucoup.
BOOKTOK: QUEL POSTO DOVE SI PARLA DEI LIBRI
di Jacopo Masini
L’anno nuovo, tra le altre cose, – anzi, tra le moltissime altre cose – si è aperto con questo post di Cristiano Saccoccia, librofago e collaboratore di svariate testate e magazine online, che, tra le altre cose, – anzi, tra le moltissime altre cose – ha questo insensato desiderio di buttare via il tempo e le energie e le cose interessanti sui social e in particolare su facebook.
Un desiderio che diventa ancora più insensato le volte in cui si mette a parlare a una platea di anziani come me, Davide e altri ancora più anziani di noi, cioè i sessanta - settantenni che popolano il primo social network di successo del mondo e che lo occupano perché non sanno più dove traslocare.
Un suo post del primo gennaio – e che dunque ha aperto l’anno – è proprio di quel tipo, cioè nel solco di quell’insana volontà, ma prima o poi ci parlo, con Cristiano, e gli spiego che, secondo me, la deve smettere di inseguire gli anziani – non come me e Bregola, ma come gli altri – e spendere le proprie energia qui su MOLLETTE, che io e Davide, per lo meno, facciamo a pugni con noi stessi da anni per non finire nel tranello della vanagloria editoriale, dal momento che tanto quella vanagloria non paga ed è diventata la cosa più nerd in circolazione, ma di questo parleremo un’altra volta.
Cristiano, visto che ha voglia di buttare via tempo ed energie, ha scritto un post che gli copioincollo brutalmente, così impara e almeno quel post serve a qualcosa. Era a commento di una foto che gli rubo a sua volta.
Prima la foto:
Poi il post:
Penso che sia la prima volta in Italia che una libreria usi TikTok come slogan e medium di consigli. Il booktok si sta evolvendo in maniera capillare, orde di lettrici e lettori giovanissimi assaltano gli store, i nuovi nativi digitali, millennial, GenZ, TikTok's children, Cyberpunk readers in realtà se ne sbattono del mondo digitale, tornano alla carta, desiderano pacchi di libri per Natale, la Befana e il compleanno, il libro diventa feticcio ma anche conforto fisico per una generazione che attraversa mille dubbi identitari su molteplici questioni. Gli orientamenti sessuali, l'identità di genere, le malattie mentali, bullismo, disturbi alimentari, e criticità relazionali con amici, partner e genitori. Il tutto viene tamponato dalla lettura che diventa non solo il luogo in cui rifugiarsi ma, al contrario, un palcoscenico per un dibattito. La individualità personale diventa non solo una opinione ma un'esperienza condivisibile. Una molteplicità di io.
Per nove anni ho lavorato in una casa editrice di fumetti che si chiama saldaPress. Mi occupavo della comunicazione della casa editrice, partecipavo alle fiere e passavo ore dietro al bancone dello stand a vendere fumetti, cioè libri, e mi ha sempre sorpreso lo scollamento tra ciò che vivevo io – incontrare migliaia di giovanissimi lettori dai dieci anni in su a Lucca, Napoli, Milano ecc… – che arrivavano allo stand con la fregola di spendere cinquanta, cento, a volte anche duecento euro per riempire sacchettate di libri e leggere e guardare storie e le notizie in tv e sui giornali, che parlavano di giovani che non leggono, di un disastro culturale epocale, ecc… ecc… Poi arriva il post di Cristiano e il mio cervello fa BINGO!, i giornali e le tv dicono quelle cose perché quei lettori non frequentano loro, cioè giornali e tv sono tipo le sale da tè che si stupiscono se tutti i ragazzini vanno in sala giochi, invece che da loro a scassarsi di infusi e cioccolata con panna.
E mi viene in mente la volta che venne Eugenio Scalfari a Parma, più o meno nel 2010, credo, e a un certo punto iniziò a dire che i giovani non leggono più i classici e la letteratura dell’800 – badate bene che son passati più di dieci anni – e che l’epica è morta e a me venne da pensare ‘Ma scusa, magari non leggono più le robe che piacciono a te, ma Poe, Stevenson o Stoker vengono ristampati e letti. Cosa cazzo dici? E poi l’epica è morta? E Star Wars, e The Walking Dead e Fast and Furious?’ e avrei voluto alzare la mano e dirglielo, ma la sala era piena di gente che di lì a poco si sarebbe riversata in facebook e allora ho desistito.
Ma, Cristiano, ascoltami, bisogna che ne parliamo di questa cosa di BookTok, è molto importante.
Adesso ti telefono.
GRIMDARK ED EPICA ITALIANA DEL FANGO
di Cristiano Saccoccia
Se non esistessero scrittori e editori indipendenti il fantastico italiano non esisterebbe. Che sia thriller, soprannaturale, fantasy, fantascienza e horror la maggior parte dei titoli italiani derivano dalla scena indie, nelle case editrici famose molte opere di genere sono mascherate da tentativi literary. Ovvero fantascienza travestita da saga familiare o problemi sociali.
Ci siamo persi. Un tempo c’erano Calvino, Manganelli, Buzzati, Landolfi, Bontempelli, Tarchetti, Fogazzaro, Morselli. Avevamo bisogno dell’altrove, di frontiere oltre i confini politici e geografici stabiliti da vecchie guerre e burocrati. Ci siamo persi la meraviglia per strada, un tempo c’era l’avventura di Salgari e il fiabesco di Goldoni. E abbiamo iniziato a rannicchiarci su noi stessi, come se fossimo lettori-embrioni, ci siamo dimenticati la fantasia e abbiamo guardato soltanto l’ombelico. È nato il dissidio, la scrittura ombelicale, la auto fiction, una biografia falsata o una narrazione fedele dell’io degli scrittori. La scrittura sembrava diventare una colla per unire gli italiani dopo le guerre, dopo le tensioni, abbiamo dimenticato le storie di Basile e le novelle di Boccaccio, perché la Peste l’avevamo dentro noi stessi e potevamo scacciarla con lentissime speculazioni di autoindagine. Abbiamo guardato alla famiglia. Anche gli orfani si inventano saghe familiari per far parte di un collettivismo del pianto. Ci sono romanzi che raccontano solo quello. Ci siamo persi davvero, per fortuna qualcuno ha una bussola che suggerisce una direzione fuori dal nostro IO. Perché per scrutare noi stessi non abbiamo bisogno solo di qualcosa così autorefirito. Vogliamo che l’immaginazione schiacci la realtà. Perché un giorno Andrea de Carlo in televisione disse tutto quello che c’è da raccontare lo trovate nella vita reale, il fantastico non serve a niente: A me non servono le tue storie, fatte di amici che si fidanzano e tradiscono. Con drammi familiari e rapporti consunti. A me servono Città Invisibili, non per dimostrare che esistono a qualcuno ma per andarci ad abitare quando le Città diventeranno Invivibili. Ho bisogno del fantasy. Di mondi anche oscuri. Dove l’epica è morta per raccontare l’umanità in altri inediti modi. Ho bisogno del grimdark.
È vero. Le parola dark e grimdark fanno pensare che l'adult fantasy sia un guazzabuglio di violenza, sangue e sessualità esplicita, ma a dirla tutta non ho mai amato un libro "visivo" i cui effetti si limitino alla esposizione di questi fattori. Chi ha mai divorato cinquemila pagine delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco spinto dalle scene sessuali o dalle mere battaglie? Penso nessuno. No, per Adult fantasy intendo qualcosa di più strutturato e autentico che va a radicarsi nella testa del lettore e nel suo sangue. Qualcosa che resta.
E forse sarà il fascino stratificato delle complesse relazioni tra personaggi in Brandon Sanderson che esplora l'abisso della Fantasia con le malattie mentali e viceversa, l'autodeterminazione individuale come processo riabilitativo.
I dialoghi di Abercrombie, così umani da rendere umili e schifosi anche gli déi più potenti, dove il realismo più materialista possibile si fonde a una morale della necessità. Fare la cosa giusta, tra il sangue e le lacrime. Ma farla. Mai rimanere inermi, il destino può travolgerti.
Lo spirito di cameratismo di Glen Cook, con questa Black Company che affronta gli incubi di un mondo devastato senza rinunciare al Noi piuttosto che alla tirannia dell'io.
Il senso di cupa predestinazione che aleggia in Anthony Ryan, quando Sangue e corpo ti obbligano a essere parte di qualcosa di pericoloso ma il dolore ti ricorda costantemente chi eri e chi potrai essere sovvertendo le regole del Fato e di molto altro.
Il potere come estetica e complessità di worldbuilding, il mondo nuovo che cozza con il conservatorismo degli antichi. La politica come trama e la trama come menzogna in cui imprigionare il lettore tra le pagine delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.
Proteggere. Non solo la terra. Non solo il Regno. Non solo gli umani. Ma la tua parte di destino, anche se nel tuo sangue scorre qualcosa che ti rende disumano ma una Legge della Sorpresa ti scombussola l'anima. Perché l'amore esiste, ma esistono anche più amori. Come in The Witcher.
Il passato può essere un tormento ma anche speranza. Fili invisibili che ti legano a una vita di successi fino a un presente di fallimento. Chi sei davvero ragazzo che pulisce il bancone? Cosa nascondi in quegli occhi di smeraldo che un Cronista non può raccontare? Perché la locanda è assediata dai mostri. Mio caro Rothfuss
E ci sarebbe tanto da dire, e sarò onesto per me il grimdark, il Dark, il target ombrello Adult Fantasy hanno regalato così tanto che voglio soltanto dargli il giusto merito.
Un esempio è il grimdark italiano di Ignoranza Eroica.
Era il 2018 e lessi per la prima volta i libri di Ignoranza Eroica e la mia prima reazione fu "ma che cazzo ho letto?" I racconti delle loro antologie erano cose che non avevo mai visto nella letteratura fantasy, di fantascienza e della favolistica moderna. Dopo anni bombardato dalle prose di autori stranieri in traduzione avevo perso il contatto con l'italiano più puro e che si contaminava di termini gergali, locali e inventati. Rimasto sconvolto mi son letto il primo romanzo di Jack Sensolini. IL BALLO DEGLI INFAMI. Credo il primo libro grimdark italiano, super godevole ben architettato un libro che non mi fece mancare il fantasy straniero. Poi lessi Vilupera (Mazza- Sensolini) e sta volta rimasi folgorato perché oltre ai personaggi epici c'era un worldbuilding al rovescio, un'Italia sporca e grandguignolesca, beffarda e truffatrice, un covo di vi(lu)pere che si ergeva sulle macerie di altri gioielli cinematografici e letterari. Alan D. Altieri, Pinketts, Borges, Tarantino, la cultura pop italiana. Vilupera ha insegnato qualcosa, che si può rivoluzionare il panorama partendo senza editori e critiche giornalistiche patinate. Questo romanzo andrebbe letto non solo per puro piacere ma avere un quadro sociale di questa Italia che ogni giorno prova ad imitare (grottescamente) la dura realtà grimdark.
Per questa ragione è nato un gruppo Facebook – Grimdark, Dark e Adult fantasy Italia - perché vogliamo far conoscere ai lettori le più belle penne del palcoscenico straniero e i più iconici scrittori del panorama italiano. Per questo ho iniziato una collaborazione per Letterelettriche, casa editrice specializzata nel fantastico, perché volevo dare voce a chi non viene ascoltato. Ora metteremo il volume a tutto, c’è la cacofonia della battaglia.
E noi siamo in trincea contro la realtà.
ROBBABUONACHECIPIACE
Il Film Regen del 1929 di Joris Ivens si può vedere qui:
Il mimo Marcel Marceau
Enzo Mari e la creatività
Bruno Munari
L’arte naif in Italia nel 1980
LA POESIA DI ZAVATTINI CON CUI CHIUDIAMO MOLLETTE TUTTE LE VOLTE PERCHÉ SÌ
LA BASA
O vést an funeral acsé puvrét
c’an ghéra gnanc’al mort
dentr’in dla casa.
La gent adré i sigava.
A sigava anca mé
senza savé al parché
in mes a la fümana.
*
LA BASSA
Ho visto un funerale
così povero
che non c’era neanche
il morto nella cassa.
La gente dietro piangeva,
piangevo anch’io
senza sapere il perché
in mezzo alla nebbia.
(da Stricarm’ in d’na parola)