FIAMMIFERO
di Arianna Pennacchio
LA SCULTRICE GENIALE. RITRATTO DI CAMILLE CLAUDEL
di Sara Durantini
«Una splendida giovane, nel fulgore trionfale della bellezza e del genio, questa giovane dalla fronte superba, sovrastante due occhi magnifici, di quel blu così raro da trovare se non nei romanzi»: così veniva descritta Camille Claudel dal fratello Paul in una lunga e malinconica lettera indirizzata a Eugène Blot intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. All’epoca, Camille Claudel era rinchiusa nel manicomio di Montdevergues dove sarebbe morta una decina di anni dopo, in una fredda giornata di ottobre del 1943. Le sue peregrinazioni tra un sanatorio e l’altro iniziarono nel marzo del 1913 quando venne prelevata dalla sua abitazione, al 19 di Quai Bourbon, nel cuore di Parigi. «Del sogno che è stata la mia vita, questo è l’incubo», scriverà dall’abisso di Montdevergues. Ricordi di una vita lontana, immagini dai contorni sfumati che forse le ritornarono alla mente guardando negli occhi Jessie Lipscomb, un volto amico, uno dei pochi che Camille vide negli anni della sua forzata reclusione. Jessie era l’amica inglese con la quale Camille aveva condiviso per due anni, dal 1882 al 1884, lo studio preso in affitto al 117 di Notre-Dame-des-Champs, nel quartiere Montparnasse. Quel fulgore che aveva contraddistinto la giovane negli anni Ottanta dell’Ottocento, tra le mura del manicomio era scomparso, coperto da una coltre di tristezza che Jessie non poté far altro che memorizzare con rassegnazione chiedendo al marito di scattare una foto a Camille. L’abito scuro, il cappello a coprire interamente quello che un tempo erano i capelli lucenti e lunghi fino alle reni. La fierezza, il coraggio, la superiorità di chi «ha ricevuto molto e lo sa», tutto in lei si era dissolto. Camille Claudel, come l’aveva conosciuta Jessie, non c’era più. Così come non c’era più il quartiere Montparnasse come lo ricordavano le due donne, il luogo incantato dove la favola ebbe inizio e dove tragicamente finì. Irrequieta, testarda e ambiziosa, Camille Claudel apparteneva alla borghesia e la madre, arcigna e anaffettiva ereditiera della provincia dello Champagne, aveva capito fin da subito che proprio quella figlia non avrebbe fatto parte della classe sociale di francesi dedite al matrimonio e alla famiglia. Tra loro non scorreva buon sangue. Paul, il fratello di Camille, descrisse questo rapporto come tumultuoso e burrascoso, puntellato da continui scontri ma sul terreno dell’educazione e dell’istruzione la signora Claudel conveniva con la figlia nell’ambire alle migliori scuole. Da qui la necessità di lasciare Villeneuve-sur-Fère, il paese tra le dolci colline dello Champagne che diede i natali a Paul, prima per Nogent-sur-Seine, dove Camille prese lezioni private dallo scultore Alfred Boucher, poi per la vivace e acculturata Parigi. Fu proprio Camille a convincere i genitori a scegliere il quartiere Montparnasse, meta di molti artisti dell’epoca, per sfuggire alle ristrettezze culturali della cittadina di provincia di Nogent dove le donne non potevano seguire liberamente la propria indole creativa e spesso le doti artistiche venivano obnubilate per mansioni considerate più femminili come l’insegnamento. Fu così che, nel 1881, la famiglia Claudel si trasferì al 135 bis di Boulevard Montparnasse e Camille iniziò gli studi all’Accademia Colarossi. Parigi era la città dei sogni, la metropoli dove tutto era possibile. Immersa nella celebrazione della Repubblica, la Ville Lumière era rappresentata dalla bandiera tricolore e dall’inno nazionale con il suo motto Liberté, Égalité, Fraternité. La Parigi della Belle Epoque mostrava i segni di una modernità inarrestabile. Ovunque nascevano locali, cinema, centri commerciali: il Moulin de la Galette, il Café du Rat-Mort, il Moulin Rouge, la pâtisserie Gloppe, le proiezioni dei fratelli Lumière nel Grand Café, Le Chat Noir, gli spettacoli di can-can di Louise Weber, l’imponente Galeries La Fayette. Brillava questa città e con lei la giovane Camille, non ancora ventenne, che aveva scelto la scultura per dare voce al fuoco che le ardeva dentro.
Dopo anni trascorsi a modellare l’argilla di Villeneuve, quella stessa argilla utilizzata dagli operai del posto per costruire le tegole delle case, dopo aver immerso le mani nel prezioso oro rosso e fangoso e aver provato a ricreare le sagome inquietanti ammirate a La hottée du diable, un luogo spettrale nel quale si rifugiava per allontanarsi dalla famiglia e dai litigi con la madre, dopo tutto questo tempo Camille poteva trasformare la sua arte in creazioni da esporre nell’atelier che prese in affitto con altre scultrici (tra cui l’inglese Jessie Lipscomb) e dove poteva prendere lezioni da Alfred Boucher, che settimanalmente si recava a Parigi. In questo contesto e per mano dello stesso Bouchet, Camille Claudel conobbe Auguste Rodin. Fu un amore appassionato e feroce, fin dal primo incontro. Mi sembra di vedere Rodin, mentre si aggira nell’atelier di Camille, osserva la scultura dedicata al fratello Paul, tempo dopo denominata Il giovane Achille, e il busto di una donna alsaziana, una lavoratrice della famiglia Claudel. Sono accanto a lui mentre ascolta le parole di Camille e riconosce, nei suoi occhi, quel fuoco ardente, quella bramosia, quel bisogno di spingersi sempre più in là con i materiali, di scoprire quello che le mani possono creare, lo stesso fuoco che lo animava agli inizi della sua carriera, lui che ha ventiquattro anni in più di Camille. Un anno dopo, Rodin volle la giovane al suo fianco per realizzare quello che diventerà Les Bourgeois de Calais. Maturò e si consolidò quell’«amore puro e ardente, quel furore» di cui parlava Rodin in una delle poche lettere ritrovate molti anni dopo che risaliva a questo periodo, quello della loro cieca e violenta relazione. Immersa nella polvere, Camille scolpiva con fervore giorno e notte, mentre Rodin guidava le sue mani «mostrandole l’oro». Spesso il silenzio dell’atelier veniva spezzato dalle impetuose scenate di gelosia di Camille dalle quali Rodin tentava di sfuggire per poi prostrarsi in umili scuse anche scritte, «in ginocchio davanti al tuo bel corpo che stringo». Rodin era legato da molto tempo a Rose Beuret, «una sarta dai tratti virili, dai grandi occhi d’agata con riflessi dorati» che gli aveva dato un figlio e che gli perdonava le innumerevoli infedeltà. Ma Camille no, lei voleva il corpo e l’anima di Rodin, l’amore assoluto, totalizzante, che potesse appagare il vuoto lasciato da una madre imperturbabile, che le aveva sempre preferito la sorella minore Louise, e da un padre costantemente assente. Scavando nel vuoto di Camille, Rodin la illuderà promettendole una vita insieme e il matrimonio da lei tanto atteso di ritorno da un loro viaggio in Italia, matrimonio che avverrà solo molti anni dopo ma non con Camille Claudel bensì con Rose Beuret. Tra bugie, lettere infuocate d’amore e incontri furtivi, la loro relazione proseguì fino a quando Camille restò incinta di Auguste Rodin. Quel bambino non verrà alla luce; Camille sarà costretta, forse proprio dallo stesso Rodin, a ricorrere all’aborto confidandosi poi con alcune amiche. L’accaduto non tarderà a giungere alle orecchie del fratello Paul che le intimiderà il manicomio per il «crimine commesso». Per Camille, la discesa nel dolore, nell’umiliazione e nella frustrazione sarà inarrestabile. Non potendo contare sull’amore di Rodin, la giovane scultrice decise di allontanarsi da lui anche professionalmente rinunciando, per sempre, all’unica persona, a suo parere, in grado di completare la sua vita artistica e sentimentale. Il distacco dal mondo di Rodin sbatterà in faccia alla scultrice il pregiudizio sessista dell’epoca: i critici la consideravano l’allieva di Rodin e le sue opere faticavano a trovare riconoscimenti al di fuori degli amici e dei conoscenti. La lontananza dal centro cittadino del suo nuovo atelier non incoraggiava i possibili committenti e relegava Camille Claudel in una situazione di solitudine vorticosa. I problemi finanziari non tardarono a farsi sentire. Il fratello e la madre sopperivano mensilmente ai vuoti economici di Camille ma di quelli emotivi nessuno si occupava. A nulla serviranno la boccata d’ossigeno del successo, seppur temporaneo e a tratti complicato, raggiunto grazie alla realizzazione dell’opera L’âge mûr, il trasferimento al 19 di Quai Bourbon, il breve saggio pubblicato sulla rivista Femina e firmato dalla giornalista Gabrielle Rèval che descriveva la scultrice come l’incarnazione del genio femminile o il sostegno di Eugène Blot. Questi eventi si rivelarono vani di fronte alla presa di posizione della famiglia di Camille: dopo la morte del padre, avvenuta il 2 marzo del 1913 e di cui la giovane non venne informata, la signora Claudel riunì attorno a sé gli unici figli da lei riconosciuti come tali, Louise e Paul, decidendo di tutelare l’immagine della famiglia da Camille. Si rivolsero al dottor Michaux che dichiarò, in un certificato medico, la necessità «di internare la ragazza». Il giorno dopo il certificato venne controfirmato dalla signora Claudel. Camille venne prelevata con la forza dal suo atelier il 10 marzo, a soli otto giorni di distanza dalla morte del padre. Dai manicomi nei quali venne internata per trent’anni, fino alla sua morte, scrisse lunghe e accorate lettere alla madre, alla sorella Louise, al fratello Paul persino al dottor Michaux, lettere che non ebbero risposta e non sortirono alcun cambiamento al suo destino. Accusata di vestirsi male, di badare poco all’igiene, di vivere nella polvere, di essere terrorizzata da quella che lei chiamava la banda Rodin, di condurre un’esistenza emancipata, Camille Claudel venne dimenticata dalla famiglia, volutamente abbandonata tra le mura di un manicomio. Neppure le richieste dei medici agli inizi degli anni Venti, come quelle del dottor Brunet e più tardi del dottor Charpenel che chiedevano alla signora Claudel di riprendere in famiglia la figlia per l’attenuazione delle sue condizioni deliranti, riuscirono a convincere la donna a far uscire Camille. Dopo anni di ricerche, superando anche le difficoltà nel reperimento delle informazioni causate dalla Prima Guerra mondiale, Jessie Lipscomb scoprì l’indirizzo del manicomio in cui era internata l’amica. Vi si recò con il marito William Elborne e a lui chiese di scattare una foto a Camille.
Lo sguardo spento, assente, svuotato. «Non era pazza, ma era lontana»: così parlerà Jessie. Lo sguardo di una donna altrove come se Camille non facesse più parte di questo mondo. Con gli anni, le condizioni fisiche di Camille Claudel si aggravarono sempre di più ma le lettere dei direttori del sanatorio inviate ai famigliari cadevano, ogni volta, nel vuoto. E così la situazione precipitò fino al giorno della sua morte, il 19 ottobre del 1943. Nessuno andò al suo funerale. Durante la sepoltura, insieme al prete, solamente alcuni membri dell’ospedale. Il fuoco di Camille Claudel, la sua tenacia, il suo carattere indomito, sono stati spenti e annientati prima in vita e poi in morte. Ci sono voluti anni e poi decenni perché il suo nome comparisse nelle biografie e nei libri, perché la sua arte venisse riconosciuta non come costola di Auguste Rodin ma nella sua originalità e specificità. Il prossimo anno, il 19 ottobre del 2023, si celebrano ottant’anni dalla sua morte. Le parole sono l’unico strumento che ho, che abbiamo, per mantenere vivo il ricordo del passato, per restituirle quello che, in vita, non ha mai avuto.
OIMMENA
di Elisa Baldini
Erano almeno due giorni che ce l’aveva lì dentro, penzoloni. Non l’aveva detto a nessuno. A casa era meglio stare zitti, l’equilibrio era troppo su tre zampe: ogni folata di vento poteva rompere il rotolante, e poi, per rimetterlo a posto, erano madonne delle rose smorzate in gola. Se lo teneva lì, cullandolo un po’. Batterci sopra la lingua all’inizio le dava un dolorino male bene che da poco aveva sperimentato, e le piaceva. Poi però, a forza di cullarlo, si era staccato ancora di più e il dolore si era attivato come un neon pulsante ad ondate di calore. Non sempre. Tutte le volte che provava a mangiare sì. Dirlo, ancora no. Stare lì, sul chi va là, e vedere che succede. “Tutte bene non possono andare, ma nemmeno tutte male!” Diceva spesso suo padre. Babbo Natale non esisteva, l’aveva già sgamato quando aveva fatto nottata di fronte alle lucine dell’albero, rannicchiata dietro al divano componibile anni ’70, e non era arrivato nessuno. I regali erano comparsi per magia dopo colazione, quando il suo sentimento del magico aveva già trovato la porta. Magari la fatina del dente, che, a differenza della lucciola fatta asfissiare sotto un bicchiere, non l’aveva mai premiata, questa volta avrebbe pagato pegno. Non voleva soldi. Le bastava mangiare il Kinder Pinguì. Almeno quello. La nonna ciabattava per casa, come sempre, ma si vedeva che non si dava pace. “Questa bambina non mangia.” L’aveva sentita dire alla zia, al telefono. Alla mamma no. Quella casa era così piena di spifferi che tendevano i rotolanti: nessuno aveva voglia di far saltare una listella. La nonna non si lamentava mai, ma gonfiava dentro, in una piccola parte gracile che aveva chissà dove, e lei sentiva in qualche modo quella piccola parte gonfiare confusa tra le meline rosse del suo grembiule stinto. Non era mai rabbia, era un dispiacere gentile, un tocco rassegnato, come un sospiro di vento che decide di disperdersi a caso, anche quando sa che non porterà il fresco a nessuno. “Le vuoi le ballotte? Te le taglio a metà.” Il neon era diventato una lama, che si infrange nella buccia dura delle castagne, le cianciuca sanguigne, e poi ritorna a penzolare, oppure, peggio, si stacca infine e finisce tra le sue viscere, e questo, ne era convinta, voleva dire morte certa. Non poteva cedere, nemmeno di fronte alle castagne bollite e già tagliate in due.
“Non mi vanno.” “Oimmena!” La nonna non si lamentava mai, ma nei momenti in cui quel garbuglio confuso gonfiava da qualche parte e arrivava ad un punto di spasmo considerevole, diceva “Oimmena”, e lo disse. Poi ciabattò di nuovo in cucina. Lei si era ipnotizzata di fronte alla televendita del rullo celeste che sembrava dipingere i muri da solo, come un braccio meccanico artificiale che fa da appendice ad un essere umano qualsiasi, il quale, di fronte a quel muro che a poco a poco diventa di un celeste intonso cielo d’estate a Fiumaretta, dimostrava l’esistenza di qualcosa di più grande di castagne e denti penzoloni, dolore sordo e Kinder Pinguì intatti nel frigorifero. Che bello dipingere muri di celeste con quel rullo lì, viene tutto preciso, non si fa alcuna fatica, e non si sente quasi più male, se la lingua si tiene ferma da una parte, fino a farsela quasi formicolare. La nonna non si lamentava quasi mai, ma non è grulla. A pranzo decide di sfoderare i suoi pezzi da 90: bracioline fritte e puré. Di fronte a queste succulente tentazioni, il neon sembra accendersi come il naso dell’Allegro Chirurgo quando il paziente ha poco da essere allegro: dopo aver ciucciato quello che poteva ciucciare senza intaccare nulla di dolente, quella che non mangia si ritira di nuovo sul divano, cercando una magra consolazione all’avere una mina vagante in rotta verso le sue tonsille guardando Mazinga su Junior TV. Sente la nonna oimmenare in cucina, mentre silenziosa e gonfiante (chissà dove) rigoverna. Mazinga le fa venire sonno, non ci capisce nulla: queste missioni sono troppo astruse, gli ammennicoli di cui si agghindano e disperdono questi robottoni non ha mai capito bene a cosa servono di preciso, e poi dove si svolge l’azione? Troppi pochi riferimenti spazio-temporali; però che bel sottofondo per dormire e non pensare più a cosa sta pulsando in bocca, penzolando ostinato, senza alcuna voglia di fare come dovrebbero fare le cose nel mondo: risolversi da sole senza dover muovere un dito. “Devo andare all’Appalto, vieni anche te così ti compro il gelato?” L’oimmenatrice è lì, gentile, confusa, lievemente gonfiante dentro. Il gelato si può suggere senza masticare, non ha spigoli acuti: c’è solo da stare attenti allo stecco, ma lo stomaco oramai è un vortice che urla vendetta, e c’è da prendere un’iniziativa, qualsiasi essa sia. “Va bene.” Caracollano insieme all’Appalto, che è un Bar-alimentari-spaccio-edicola, ma è presto: la nonna aveva fato male i conti, con la fretta di far mangiare qualcosa a questa bambina già secca come un uscio, perché, da versione ufficiale, a scuola dalle Suore la mensa fa tremendamente schifo ed il riso viene servito dei colori della bandiera italiana a giorni alterni. "Si va al bar di sopra a prendere il caffé, il gelato ce l’hanno anche lì.” “Ma non è Sammontana.” Dice la digiuna, ma lo dice piano. Ora ha davvero fame, fame e neon sono un tutt’uno, e si è convinta che la fine della fame porterà via il neon, perché “Tutte bene non possono andare, ma nemmeno tutte male!” Il bar di sopra è meno frequentato, perché è un Circolo, e ci vanno per lo più vecchini a giocare a carte e ad anticipare la moda dell’aperitivo con un bel Campari e vino bianco con noccioline vinche sdoganato dalle ore 10.30. Ora sono le 15.00, l’ora della merenda è vicina, ed il cartellone Motta comprende un gelato senza spigoli tutto bianco, dove lo stecco è sotto, e prima si può un po’ nutrirsi, senza toccare cosa sotto brucia, ne è abbastanza convinta. La nonna sta armeggiando con il mega congelatore, frugando tra i gelati un po’ buttati alla rinfusa. Il capo del Circolo è un omone grosso, dall’aria imperativa, ma un sottofondo di ciglia bonarie. La guarda e le dice: “Allora, che si fa, cirilla?.” Lei è timida, apre a stento la bocca, si accorge che quello la fissa, ad occhi spippati, sul colletto della camicia, dove è appena caduta a tradimento una piccolissima goccia di sangue vivo. “Eh, mi fa penare. Non mangia oggi.” Si sente la nonna che, armeggiando tra i gelati, risponde per educazione. “Guarda là, un gabbiano!” È un attimo: si volta e spalanca la bocca, l’omone con una velocità che agli sceneggiatori di Mazinga gli fa un baffo, le infila la manona fasciata di un tovagliolo di quelli duri come carta vetrata in bocca, e SBAM! il naso dell’allegro chirurgo diventa rosso infiammato, e poi più nulla. “Oimmena”, ma stavolta è un oimmena di rilascio emotivo: sul bancone, contro tutte le norme di igiene sanitaria mai emanate in Italia fino almeno al 1986, c’è un cartoccino di dente e dolore, ed un gelato Motta tutto bianco finalmente scovato nella mischia, che, comunque, a quelli Sammontana dell’Appalto non gli lega neanche le scarpe.
L’ARCHITETTO CHE CONOSCE PALLADIO
di Elisa Rovesta
L’architetto che conosce Palladio è il detentore del verbo della bellezza, è il messia della perfezione strutturale che giunge in terra per indicarti la retta via e indottrinarti sul reale concetto di bellezza. Ingenuamente, ti rivolgi a lui con l’intenzione di dare vita alla tua nuova o già esistente casa. Lo chiami con umiltà, dandogli del lei e chiedendogli gentilmente se sia possibile avere un incontro. L’architetto ti risponde di sì, ma che vi incontrerete solo dopo i suoi innumerevoli impegni, deve prima finire la villa in Toscana, deve ultimare la piscina dell’hotel a 5 stelle in montagna e deve andare in Spagna, perché l’architetto che conosce Palladio, non si sa perché, nel mondo, preferisce la Spagna, è un dogma, prendilo così. Dopo tutti i suoi impegni, mette al centro te. Tu, che sei pronto a pagare per il suo servizio, sappi che sei in fondo alla lista dei suoi clienti, e te lo ha detto. L’architetto che conosce Palladio si degna di incontrarti finalmente. Indossa un bel giaccone di Aspesi, lineare e semplice, senza fronzoli, simbolo del “lessis more”, che per lui è un mantra, una religione da seguire. Ha le Adidas bianche, sempre, a prescindere, il capello spettinato da vero artista, i jeans e un maglioncino lineare, blu o grigio, non importa, basta che sia lineare (lessis more, ricorda).
Ti guarda con sguardo penetrante, ipnotico. Come un domatore di leoni cerca di addomesticarti attraverso lo sguardo. Parla lentamente, il respiro ha sempre lo stesso ritmo, a cadenza perfetta, toc toc, che suscita un leggero effetto soporifero nell’interlocutore, ma riesce a riprendere immediatamente possesso della conversazione attraverso un semplice commento: «Pensiamoci». Sì, perché tu, poverino, con immenso candore gli spieghi le tue esigenze, con parole semplici: «Vorrei una cucina comoda con un piccolo disbrigo», «Vorrei un salotto dove poter ospitare gli amici per guardare la partita». Queste parole le pronunci quasi con la bocca stretta, speri che lui nemmeno le senta, ma compi un atto di coraggio e le dici. Guardi per terra, ti mastichi il labbro e ti tocchi i capelli; lo sguardo è sempre abbassato, un po’ sudi, e infine ti esce dalla bocca: «Scusami, non volevo, non dovevo nemmeno pensarlo». Ma lui, che è cattivo, sappilo, ti fissa con gli occhi iniettati di sangue e ti dice: «Ti invito a riflettere (non è un invito, è una minaccia) sulle proporzioni». Non lo sai bene cosa siano le proporzioni, non ti perdonerai mai per non averlo pensato prima. Così niente spazio per riporre l’aspirapolvere e nemmeno per guardare le partite di calcio, non esiste. Tutto bianco, se potesse eliminerebbe anche il lavello in cucina; ti suggerisce, invece, una parete vegetale in cucina, ossia erba vera che si arrampica sul muro. Con un semplice gesto della mano, chiudendo le dita tranne pollice e mignolo, te le posa sulla fronte, e senti salire un tepore lungo il corpo che diventa caldo, sempre più caldo, prima nelle gambe, sale nella pancia e sale sulla faccia che diventa rossa; ti pieghi sulle gambe e ti inginocchi davanti a lui, sempre tenendoti mignolo e pollice della mano destra sulla fronte, e stremato ti lasci cadere terra. È così che ti propone, o meglio ti impone, una vasca da bagno piazzata al centro del tuo salotto, e tu puoi solo soccombere. L’hai cercato, il vero colpevole sei proprio tu, e adesso lui decide il tuo stile di vita, lui detta le condizioni del tuo vivere, perché tu sei piccolo nella tua essenza, lui invece conosce Palladio. Non oserai mai più dire nulla. Sa minare la tua autostima, solo con il respiro che accelera a seconda del grado di disgusto provato davanti a richieste stupide, come quella di poter goderti gli spazi come vorresti. Da committente in un secondo diventi vittima, sei consapevole di non essere pieno conoscitore di ville palladiane, di non aver mai approfondito Bernini, Giulio Romano… e ti maledici per non aver mai ascoltato tua madre quando ti diceva che studiare è importante. Ti sei laureato ok, hai fatto mille master ok, ma non è sufficiente, davanti a lui sei il niente, e lui questo lo sa. Con l’architetto che conosce Palladio ci hai provato a intavolare discorsi normali, a parlare di un programma in TV, ma non gli devi dire che guardi la TV commerciale, perché lui la sera non si mette sul divano, nemmeno ce l’ha il divano (less is more, ricordi?), è commerciale, lui vive di sole visioni, di musica indipendente, lenta, composta perlopiù da suoni tecnici, e sei tu, tu che lo paghi a doverti adattare a lui, sappilo. Ogni regola in materia di cliente e fornitore viene ribaltata, lui è Dio, tu sei niente, ora lo sai.
UNA RISPOSTA
di Chiara Stival
L’articolo Osservare di Davide Bregola uscito su MOLLETTE#9 mi ha offerto numerosi motivi per andare a rivedere appunti che ricordavo, non proprio benissimo, e dunque meritavano una rispolverata, quel gesto per cui si va a togliere la polvere dalla memoria, come dalle mensole della libreria, in modo che il ricordo passi da opaco a lucido.
L’ordine di apparizione delle parole magiche è stato “buon auspicio” “stato premorte” “superstizione” “templum” “sidera” “stare con le stelle” “cielo sulla terra” e “osservare-creare-scrivere”; mi hanno causato un effetto domino, un tassello ne colpiva un altro e poi un altro ancora, così ora provo a ricostruire qui il percorso, i sei gradi di separazione che avvicinano me e lui, che dal vivo non ci siamo ancora incontrati.
Le osservazioni di quel bel pezzo mi hanno portato immediatamente a una lezione dell’università in cui il professore di religioni e filosofie orientali insinuava un dubbio nei giovani studenti: ingenuità degli antichi o stupidità dei moderni? La provocazione giungeva alla fine di una premessa in cui criticava la presunzione dell’uomo moderno nell’attribuire agli antichi una mentalità ingenua e una incapacità di osservazione scientifica del mondo che circondava loro e che, di fatto, è lo stesso che circonda noi. Lo definiva pregiudizio e portava come esempio una delle errate convinzioni che l’attuale cultura -che lui però definiva divulgazione- propala affermando che gli antichi avrebbero creduto che la terra fosse piatta e che si trovava al centro dell’universo -convinzione erronea si sarebbe perpetuata a partire dalla notte dei tempi fino al Rinascimento quando finalmente Colombo e Galileo poterono dimostrare nella pratica e nella teoria quelle realtà che oggi sono di dominio comune -anche se ancora non por tutti, pare. Diceva anche che una persona di erudizione appena media dovrebbe essere a conoscenza che già nel III secolo a.C., Eratostene, seguendo le intuizioni di Pitagora e di Parmenide (VI-V sec. a. C.), aveva calcolato il raggio della terra con un errore di appena l’un per cento sui valori proposti dalla scienza attuale. Io, a ogni lezione, mi sentivo di un’ignoranza galattica, perché arrivavo da un istituto tecnico, non da un liceo, e mi pareva che tutti capissero i riferimenti, tutti tranne me; perciò, adottai una nuova tecnica: registravo le lezioni e poi le sbobinavo a casa… tu guarda quella fatica quanti vantaggi!
In quegli anni studiavo molto perché tutto era nuovo e da approfondire, e un bel giorno incontrai per la prima volta l’uomo vitruviano, in uno studio comparato sull’arte indiana e Leonardo Da Vinci. Perciò, quando Davide ha mostrato come parole d’uso comune, tipo contemplare o desiderare, abbiano una portata così elevata, direi perfino atavica, io sono stata catapultata in quel corso lì, quando mi fu così chiaro che siamo il risultato di culture millenarie, di cui non abbiamo quasi memoria, mentre quelle culture antiche avevano tradizioni comuni, e mica per caso, eh no -aveva ragione il prof!- noi snobbiamo gli antichi ma loro erano più connessi di noi al cielo e alla terra, ai simboli che tramandavano, spesso oralmente, conoscendone il significato profondo mentre noi [moderni] li vediamo, ne riconosciamo la forma ma poco sappiamo della sostanza. Veniamo quindi all’uomo vitruviano: chi sa cos’è? Oggi è facile, se non lo sai, googoli uomo vitruviano e quella ricchissima enciclopedia online spiega che “è un disegno a penna e inchiostro su carta (34,4 × 24,5 cm) di Leonardo da Vinci, conservato, ma non esposto, nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie dell'Accademia di Venezia. Celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano, cerca di dimostrare come possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure "perfette" del cerchio, che simboleggia il Cielo, la perfezione divina, e del quadrato, che simboleggia la Terra. La scelta di questa geometria non è frutto del caso, bensì di studi precisi. Il cerchio infatti rappresenta il cosmo, il divino: gli antichi ritenevano che fosse simbolo di perfezione. In contrapposizione si trova il quadrato, simbolo del mondo terreno. L’uomo, quindi, rappresenterebbe l'unione tra microcosmo e macrocosmo, quindi l’idea stessa di mondo. Riconducendo tale visione alla filosofia platonica, aristotelica e neoplatonica, l’uomo viene considerato “specchio dell’universo”. Egli è il riflesso di un ordine superiore, il quale contiene gli elementi che compongono il mondo intero.”
A parte il verbo “ridurre” che non mi piace per niente, cioè, perché ridurre la visione a quelli che sono i padri del nostro pensiero? non è forse vero che l’uomo è lo specchio dell’universo? Mi immagino Platone che sghignazza e risponde severo se non ci arrivi è un problema tuo, vedo bene come sta andando il mondo che non capisce un assunto così! A me pare che la conoscenza, se proprio dobbiamo sceglie un’operazione matematica a simboleggiarla, sia una somma, non una sottrazione, o no? Almeno per le menti comuni, intendo, poi ci sono le menti geniali. Comunque sia, mi piace molto la frase la scelta di questa geometria non è frutto del caso, bensì di studi precisi perché secondo la simbologia dei numeri di più d’una antica tradizione, le forme geometriche sono l’esito, prima bidimensionale e poi tridimensionale, dei numeri. La sequenza dei numeri dall’1 al 10 racconta la storia dell’universo, mentre lo Zero è il simbolo dell’Assoluto da cui tutto ha origine e che tutto contiene. Questo principio del contenere, cioè di inglobare mantenendo l’identità del contenuto, sta alla base della simbologia del numero e delle forme geometriche e spiega la non casualità del disegno leonardiano; infatti, sia il quadrato sia il cerchio rappresentano il numero 4, il primo da un punto di vista statico e l’ultimo da quello dinamico, e il 4 rappresenta la manifestazione del mondo. Il quadrilatero definisce dunque la terra e i quattro punti cardinali nel piano orizzontale, e se ogni lato prende il nome del numero dall’1 al 4 e poi si somma (1+2+3+4) darà il numero 10 che è l’espressione dell’intera manifestazione, e non a caso la base del sistema decimale. Se invece questi quattro segmenti si incrociano nel centro a formare una croce equilatera e poi immaginiamo questa figura ruotare attorno al proprio centro, ecco che otterremo il cerchio perfetto, la Terra che ruotando su se stessa mostra il Cielo. Dunque, Terra e Cielo sono simbolicamente la forma evidente della manifestazione dell’Assoluto. Il 5, numero successivo, è il simbolo dell’essere umano ed è incredibilmente rappresentato dalla croce ovvero dai suoi 4 bracci e dal punto centrale d’intersezione: l’uomo è il centro del mondo e quell’uomo che si è sacrificato per il mondo e tutti gli uomini non poteva che morire crocifisso…ma qui ci allontaniamo troppo. Una seconda forma geometrica utilizzata per il numero 5 è la stella…e Leonardo, come disegna il suo uomo? In una posizione stellare, contenuto nel quadrato e nel cerchio, la perfezione dell’uomo nella sua vita nel mondo manifestato, compreso tra Terra e Cielo. Essere dunque lo specchio dell’Universo non è altro che la consapevolezza di essere parte di qualcosa d’immenso e al contempo essere centrati nella propria vita, in equilibrio tra tutto ciò che il mondo contiene, essere osservatori, statici e dinamici, prima di tutto di se stessi e, magari, essere un pochino più rispettosi di quel numero 4, giacché senza il 4 il numero 5 non può esistere.
Mi viene quasi da pensare che quando nel febbraio 1958 Gerald Holtom, disegnatore commerciale e pacifista, su commissione della CND creò quel simbolo universale che è noto assieme allo slogan peace&love, qualcosa di simbologia numerica e geometrica la conoscesse… in ogni caso, un’intuizione geniale!
P.S. immagine di copertina: foto © Danilo Pivato [che è mio cugino -di qualche grado, non so se secondo o terzo- ed è un astrofotografo, che passa notti sveglio sul Gran Sasso per fare foto così e altre, molto più tecniche; quindi, se c’è qualche appassionato, può visitare il suo sito]
p.s. il logo ☮ incorpora due simboli dell'alfabeto semaforico, cioè un tipo di segnalazione con le bandierine usato in ambito navale, che indica le lettere N e D, iniziali di Nuclear Disarmament, inserite in un cerchio a rappresentazione del mondo. In seguito, Gerald Holtom spiegò che il simbolo voleva indicare un essere umano prostrato e impotente davanti alla guerra: «Ero in uno stato di disperazione. Profonda disperazione. Ho disegnato me stesso: la rappresentazione di un individuo disperato, con le palme delle mani allargate all'infuori e verso il basso, alla maniera del contadino di Goya davanti al plotone d'esecuzione. Ho dato al disegno la forma di una linea e ci ho fatto un cerchio intorno» (dal web)
PASSEGGIATA N. 2- TARANTO
di Alessandra Minervini
Una bicicletta nera appoggiata su un pezzo di muro senza intonaco. Un pannello di truciolato con manifesti d'epoca, incollati uno sull'altro, lacerati nei contorni. Annunciano, con fierezza sbiadita dall'afa, che siamo a Napoli: una bicicletta e un’automobile si sfidano in un circuito futurista. Un'altra auto d'epoca, luccicante, occupa l'ingresso della breve piazza che si apre su una basilica dalla grazia pomposa. Non sono a Napoli ma tra i vicoli di Taranto vecchia, travestita per esigenze cinematografiche, e la basilica è quella di San Cataldo. Poco distante, sbucando da un vicolo sottile, due gatti neri fanno un balletto che propizia la mia passeggiata, il mare soffia fino a raggiungermi con il suo odore lasco.
Avevo desiderio di perdermi nella parte pasionaria della città, tra i vicoli ciechi e quelli impreziositi dai riflessi del mare. Non mi aspettavo di trovarla in questa veste, che colgo nel momento di pausa dai ciak. Nel silenzio delle case dismesse, gli oggetti allestiti per il set si muovono da fermi (un'edicola, frutta, verdure e galline che allestiscono un finto mercato), invece gli esseri umani sonnecchiano tra l'ombra opaca di palazzine mute. Mi sento come se fossi in visita da una zia che non vedo da anni, penso di ritrovarla nel modo consueto e invece lei si è travestita da quella parte di sé inespressa, imbellettata da rockstar o da attrice clownesca. Sotto le mentite spoglie napoletane, Taranto resta comunque lei: "che brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi". Ciò che scrisse della città Pasolini, nel 1959, vale ancora. La bellezza frantumata tarantina si mostra nei contrasti. Quelli tra le variazioni dei blu con l'oscurità della polvere e quelli dei tanti monumenti, spigoli di storia e di arte, unici. Sembrano poggiati sulla città, come se fossero lì per caso. Camminando verso il castello Aragonese, mi imbatto in minuscole botteghe a gestione casereccia. Mi attrae una: c'è un caos d'artista dentro, mentre fuori sono esposte le opere, il cui punto più alto è rappresentato da gusci di cozze che un uomo accuratamente pulisce, disinfetta, ci incolla sopra minuscole àncore o tartarughe, ci dipinge a mano il nome della città e le trasforma in calamite. Costano solo un euro. Mi dice che a lui non interessa guadagnare, ma soltanto stare fuori casa perché “dentro casa c'è mia moglie". Gli sorrido, ne compro un paio.
Taranto è una città a cui sono imparentata. Nella mia famiglia paterna, non appena la si nominava, subito qualcuno aggiungeva un: "La capitale della Magna Grecia". Penso, mentre risalgo le colonne doriche che segnano il confine con la città nuova, testimoni dell’esistenza del tempio di Poseidone.
Non resisto al Ponte Girevole che bacia il castello Aragonese, un batuffolo di pietra normanna che campeggia sui due mari. Supero il ponte, dopo aver sfogato tutta la mia malinconica voglia di foto, compresa una al cartello più inconsueto (e comico) che abbia mai visto, Non pescare in corrispondenza del lampione sottostante. Due figure umane stilizzate si abbracciano, fino a fondersi, è il monumento ai Caduti; le figure mi fanno pensare all'incontro dei due mari umanizzati oppure a quello di Poseidone e Nettuno per la prima volta co-protagonisti sullo stesso palco.
Con un caldo che raddoppia a ogni passo, mi ritrovo a camminare sotto il fresco alberato del Lungomare Vittorio Emanuele III. L'infilata di lampioni e la sfilza di ringhiere, l'ordine ieratico della Rotonda Marinai d’Italia, più scenografica di un set posticcio, cede lo sguardo a ciò che sta sotto. Il mare, una nidiata di canoe multicolore e, sparse sugli scogli più grandi, una colonia di sirene giganti in pietra, opera dell'artista Francesco Trani e simbolo di una leggenda amorosa e tragica. Non le avevo mai viste prima. Sono bellissime. Con gli occhi impastati di fascino, mi avvicino alla versione postmoderna del dio del mare, Nettuno, nell'interpretazione dell'artista spagnolo Kraser che ha tatuato il dio sul palazzo storico d'Ayala Valva, di fronte alla Rotonda. Nettuno e Poseidone, come lo Ionio e l'Adriatico, si sfiorano, hanno la stessa natura eppure prendono le distanze uno dall'altro. Proseguo il cammino, mi blocco davanti a una macchia verde, il giardino Caduti sul Lavoro, dove il frammento di un tempio di età romana amplia la visuale tra i palazzi più moderni. Allungando il passo un po' indietro, verso via D'Aquino, passo dai giardini di Piazza Garibaldi, al centro dei quali il gazebo liberty mi fa perdere l'orientamento emotivo. Non so in che spazio e in che tempo mi trovo. Taranto è la città pugliese più postmoderna. Del postmodernismo puro e involontario, autentico come un romanzo di Foster Wallace, di cui non si può mai dire, in ogni capitolo, chi racconta e cosa. Tutto può cambiare e ritornare, quando non ce lo aspettiamo più. Una scritta su un pannello di protezione che recinta il settecentesco Palazzo degli Uffizi, imponente e in disuso, dice: "Il tarantino non è smemorato". Mi fa una tenerezza che mi trascino fino al rientro a casa. Ogni volta che passeggio per Taranto sento un legame affannato dal tempo, colpevolmente dimenticato eppure, come oggi, è sempre vicino.
AVATAR
di Chiara Stival
Mi piacerebbe chiedere a James Cameron quand’è stato il preciso momento in cui ha scelto il titolo del suo film AVATAR. Perché ci sono diverse strade che conducono alla scelta del titolo di un film, o di un libro, che poi è come la scelta del nome da dare a un figlio. C’è chi va di cuore, si ostina a mantenere il titolo originale, quello che ha pensato mentre coglieva una margherita dal prato, oppure scendeva dalla metro alla fermata sbagliata o si faceva la doccia dopo una sbronza memorabile; ma, di questi tempi, la maggior parte va di testa, valuta il peso dei suoni, l’effetto della frase, osserva il mercato e mette in atto una vera e propria azione di marketing(c’è anche chi va di pancia, e il titolo fa cagare –non ho resistito, hahahaha, ma questava tolta!).
Per me, Cameron un giorno ha avuto l’intuizione, cioè stava pensando al film [ho letto che ce l’aveva già in testa prima di Titanic!]quando è successo qualcosa o ha visto un dettaglio o ha fatto un viaggio e tac!,ha scelto il titolo. C’è da dire che, insomma, lui non è nuovo al genere né al mercato cinematografico né tantomeno al successo dei suoi film: Titanic (1997) è stato il film più costoso mai realizzato fino ad allora (200 milioni di dollari di budget più altri 85 spesi per la promozione), ma diventa il film di maggior successo nella storia del cinemacon incassi pari 1,8 miliardi di dollari. A togliere il podio a Titanic fu proprio Avatar, nel 2009, e ad oggi il podio d’incassi vede Titanic medaglia di bronzo, Avengers: Endgame(2019, regia di Anthony e Joe Russo) medaglia d’argento e Avatar medaglia d’oro. Ora, è impensabile che tale successo sia dovuto solo al titolo ma ciò che il titolo cela ha a che fare con tutto il resto.
Un altro aspetto da prendere in considerazione, prima di entrare nel clou del discorso, è il fatto che Cameron, durante la sua lunga carriera, si è cimentato anche nell'ideazione e nella realizzazione di nuove tecnologie cinematografiche, diventando uno dei principali attori nello sviluppo della computer grafica e del cinema tridimensionale, tant’è che Avatar è statorealizzato totalmente in tre dimensioni e ha visto un'ampia diffusione in 3D e in 3D IMAX (è stato comunque distribuito anche nel classico formato 2D) e tutto questo processo di innovazione e sperimentazione gli è valso tre Premi Oscar 2010 -miglior fotografia, miglior scenografia e migliori effetti speciali- e svariati premi cinematografici.
Quindi, la possibilità di utilizzate una tecnologia di primissima creazione e un’idea geniale, diciamo così, gli ha permesso di dar vita aun colossal di fantascienza di tale portata da essere paragonabile al Ben-Hur della fine degli anni 50! Ma quali sono gli elementi per poterlo definire “un’idea geniale”? Li sintetizzo in due definizioni, e poi sviluppo meglio. Pur essendo un film di fantascienza, che unisce cioè una importante dose di fantasia alla scienza, ovvero a elementi scientificiapparentemente o parzialmente fondanti per reggere le vicende narrate o rappresentate, le radici della storia di Avatar affondano da una parte nella classica lotta tra bene e male, classica perché da che mondo è mondo ogni frammento di storia, racconto o mito racconta questo, e dall’altra in un sincretismo filosofico-simbolicoche attinge da più tradizioni.
Questi due elementi sono facilmente ritrovabili curiosando tra presentazioni, trailer e recensioni, vediamone alcuni: l’ambientazione principale del film è il satellite Pandora, e già qui ci fermiamo dato che il nome porta immediatamente alla memoria il vaso di Pandora, un vaso che non più essere aperto per non scombinare l’equilibrio del mondo, ma che invece Pandora apre, ma… chi era Pandora? Il nome racchiude il senso, significa “tutti i doni”, ed è dato alla fanciulla creata per volere di Zeus e con il contributo di tutti gli dei; ma questa storia è generata da un altro mito, quello di Prometeo, il titano che osò sfidare Zeus rubando il fuoco per donarlo agli umani. Non solo, il satellite Pandora è una luna del pianeta gassoso Polifemo, nome che ci fa rimpiombare nella Grecia antica, ma ci fermiamo qui, altrimenti andiamo troppo distanti e poi si fatica a riprendere il filo. Nella visione di Cameron, Pandora è il mondo perfetto, un mondo divino abitato da esseri “quasi” umani, il popolo dei Na'vi, e numerosissime piante che crescono rigogliose e animalifantastici, che vivono in armonia tra loro; non solo, sono dotati di appendici neurali che gli consentono di interfacciarsi con la rete della flora e della fauna che abita Pandora.
Esiste inoltre una geografia particolare, un insieme di rilievi chiamati Monti Alleluia (Alleluia! qui non aggiungo nulla) conosciute dagli umani come Montagne Fluttuanti in quanto sospese a mezz'aria, lasciando intuire che il galleggiamento sia dovuto al materiale di cui sono costituite e all'interazione dei campi magnetici di Pandora (satellite luna) e Polifemo (pianeta gassoso). Ah, dimenticavo! Il loro Sole è la stella Alfa Centauri che è il nome del sistema solare triplo della costellazione Centauro, ed è facilmente riconoscibile a occhio nudo perché è la terza stella più brillante del nostro cielo notturno, dopo Sirio e Canopo. Già fino a qua gli elementi per far breccia su una vastità di popolazione sono molti, sia per echi culturali sia per i collegamenti/riferimenti al mondo attuale [guardare le stelle e utilizzare parole d’uso comune].
Dicono [riporto a titolo informativo queste curiosità che ho letto] che la questione dei Monti Alleluia che sono sospesi nel cielo di Pandora non sia un'invenzione originale perché se ne trova traccia anche neI viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, dove è descritta Laputa, l'isola volante ricavata da un diamante e governata da astronomi e matematici che non hanno alcun interesse per il profitto, e in Laputa - Castello nel cielo di Hayao Miyazaki. Riportando quello che ho trovato in qua e in là, aggiungo anche che a rappresentare per primo graficamente rocce e costruzioni sospese nel cielo fu il pittore surrealista belga René Magritte, in opere come La chiave di vetro (1959), Il castello dei Pirenei (1959) e La freccia di Zenone (1964).
In questo ambiente paradisiaco, ideale e perfetto, ahinoi, arrivano gli esseri umani, persone che da un altro mondo vogliono entrare in contatto con una diversa umanità, perché all’inizio c’è sempre un buon proposito e una buona fede, e poi ci dev’essere sempre un punto di rottura, l’intervento esterno di un fattore che determina il conflitto e, dunque, l’inizio della narrazione della storia avventurosa, della storia di tutte le storie che è l’infinita lotta tra bene e male, tra dei e demoni, tra interesse personale e interesse collettivo. Gli esseri umani che vivono e lavorano a Pandora hanno sviluppato un elaborato che è chiamato avatar e che consiste in un ibrido creato in laboratorio con geni umani e geni Na'vi, e ciascun avatar può essere utilizzato e controllato solo dall'essere umano il cui DNA è stato impiegato per comporlo [ecco la prova fantascientifica!], poi il collegamento tra essere umano e avatar viene effettuato grazie a una speciale capsula, dove il soggetto trasferisce coscienza e anima nell'avatar.
All’inizio ho parlato di sincretismo filosofico-simbolicoperché sono molti gli elementi che attingono dalle tradizioni antiche, tradizioni di cui tutti, in forma più o meno approfondita, abbiamo sentito parlare e che, oltre alla mitologia greca, trovano riscontro in simbolismi presenti in tutte le civiltà: la montagna, al di là che sia galleggiante, è il triangolo -una delle primordiali forme geometriche- che unisce la terra e il cielo, ed è quindi il luogo dello spirito, di coloro che si dedicano all’ascesi e alla meditazione; l’albero, con un significato simile, è considerato spesso legato al concetto di axis mundi; la capacità di connettersi e quindi di comunicare tra le differenti specie di esseri viventi, dunque un evidente eco alla sfera sovrannaturale. L’impatto più rilevante ce l’ha, a mio avviso -e forse per deformazione personale-, il richiamo alla tradizione indù, e ne dà prova il titolo stesso: avatar, parola (e concetto) oggi noto per il fatto che molti social hanno inserito questo gioco tra le loro funzioni, è una parola sanscrita e significa letteralmente discesae, in maniera estensiva, è l’incarnazione, cioè l’apparente assunzione di un corpo fisico, del potere divino; è una discesa dato che, dal mondo etereo del cielo degli dei, qualcuno deve scendere per compiere delle azioni sulla Terra, che è il mondo degli uomini. Quindi, l’avatar è una forma visibile del divino, ma perché il divino deve rendersi visibile agli uomini? Lo fa, e lo compie Viṣṇu nella tradizione indù in quanto divinità preposta alla conservazione del mondo, perché l’olimpo degli dei ritiene sia necessario un intervento risolutivo per la salvaguardia della vita del mondo che è ritenuta in pericolo, per colpa di un demone o di un essere umano particolarmente dotato che ha ottenuto un eccessivo potere e che non è ritenuto in grado di gestirlo in modo appropriato alla vita di tutti gli esseri viventi… un po’ come i supereroi della Marvel!
È curioso osservare come la scelta del colore della pelle del popolo dei Na'vi sia l’azzurro-blu, esattamente come Viṣṇu nella maggior parte delle rappresentazioni popolari, sia dipinti sia sculture, una tonalità alquanto vivace e assai diversa dall’altra divinità indù con cui condivide la popolarità, Śiva, dio terribile e amoroso al contempo, preposto alla trasformazione, tant’è che la sua pelle non è luminosa come quella di Viṣṇu perché coperta della cenere dei campi di cremazione. Restiamo ancora un momento sulla funzione di Visnu come divinità che ripristina l’equilibrio: la letteratura sacra narra i dasāvatara, i dieci avatar in cui Egli è stato chiamato ad agire e lo fa modificando il suo aspetto, diventando pesce e tartaruga e poi cinghiale e uomo-leone, e il nano Vamanaancora in forma umana con i nomi di Parsuram, Rama, Balaram e Krsna, manca solo la discesa del Kalkin, di cui ora non è però possibile parlare.
Un altro aspetto interessante è che le divinità indiane posseggono una cavalcatura che utilizzano sia per spostarsi sia per commissionare degli incarichi o assumere il ruolo di messaggero, e ogni guerriero del popolo Na'vi ha un proprio animale di fiducia che cavalca durante la battaglia e con cui è connesso, divenendo quasi un'unica identità durante la battaglia.Altra curiosità è che la guida spirituale degli Omaticaya, clan dei Na’vi attorno a cui si sviluppa la trama del film, sia una donna e rappresenti la potenza del principio femminile così come è nell’essenza della dea Tripurāsundarī.
Insomma, ipotizzo che il giorno in cui James Cameron scelse AVATAR come titolo del suo film fu illuminato o riflesso da una luce blu, poi fece due conti e considerò che anche dal punto di vista di strategia di marketing avrebbe attratto un’incredibile quantità di spettatori, per motivi diversi ma tutti di grande appeal. Ora aspettiamo di vedere cosa accade nel sequel, in uscita per dicembre 2022: magari troveremo l’ipostasi di Śiva Bhairava -il terrificante dio irato che mozzò la testa a una divinità- oppure ci tufferemo nel mito del Matsyāvatara in cui Viṣṇu ha forma di pesce e aiuta i sopravvissuti, raccolti in una barca, a transitare verso il Nuovo Mondo!
Robbabuonachecipiace
Agota Kristof
Irene
Intervista
Un racconto perfetto, che è anche una canzone
Quando si dice perdere la testa
da IN CULO OGGI NO
di Jana Černá
Le fiche si cuciono su misura
e al sarto gli si dice
Mi ci metta una fodera di seta
e non metta bottoni
tanto la porterò slacciata
Si cuciono quindi così
come la biancheria da uomo.
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